giorgio levi

Addio Grazia, Mondadori cede ai francesi il più prestigioso settimanale dedicato alla moda italiana

Finisce qui la lunga storia italiana di Grazia, tra i più prestigiosi settimanali nel mondo dedicati alla moda. Fondato nel 1938, ha 84 anni e Mondadori ha deciso di cedere il magazine (124 mila copie secondo gli ultimi dati ADS, diretto oggi da Silvia Grilli) al gruppo editoriale francese Reworld, uno dei maggiori in Europa.

Lo ha annunciato Segrate con un comunicato qui pubblicato che specifica: “Il gruppo Mondadori avvierà, coerentemente con le disposizioni di legge, la procedura di consultazione delle organizzazioni sindacali”.

Sono stato un redattore di Grazia negli anni Ottanta. Il giornale era nel massimo del suo splendore, vendite intorno alle 300 mila copie settimanali, milioni di lettrici, secondo soltanto a Panorama e primo nell’impressionante raccolta pubblicitaria. Era un giornale ricchissimo. Io invece ero il giornalista sbagliato nel posto sbagliato. L’ho raccontato in Volevo essere Jim Gannon, qui riporto una parte di uno dei capitoli dedicati a Grazia, contenuti nel mio libro.

I fatti sono veri, i nomi per rispetto a persone che non ci sono più sono inventati.

A Grazia mi hanno messo messo nella cosiddetta cucina. Titoli, sommari, occhielli. Ci sono giornalisti tagliati per scrivere, altri per cucinare. Non so se appartengo alla prima categoria, certamente non alla seconda, almeno in questo giornale. A Grazia la cucina ha un rilievo enorme. La maggior parte della giornata la dedico a bozze e impaginati. Titoli sempre uguali, insulsi, piatti come saponette. La Vanni vuole che non si spaventino le lettrici. Con gli articoli si parte da lontano, si evitano il più possibile prese di posizione, guerre, politica. Quando il clamore li impone, gli argomenti si affrontano con la dovuta lentezza, a settimane di distanza, centellinando le parole. Per tutti gli accidenti di questa terra c’è sempre un rimedio.

Il meglio della giornata è la pausa mensa, il giro al supermercato interno e la visita alla libreria, dove si può comprare tutto a metà prezzo. Negli anni porto a casa tonnellate di libri, classici e contemporanei, colti e rozzi, compro tutto. Da quando sono a Grazia ho fatto molte più amicizie. La redazione con i suoi 45 giornalisti è la seconda della Mondadori, dopo Panorama. Così in mensa vado con Grazia, che è nel settore grafico del giornale. Al bar ci vado con Egidio, Paolo e il fotografo Guglielmo, che negli anni Cinquanta era tra i paparazzi di via Veneto e adesso fotografa i profumi per le rubriche di Confidenze. Ci sediamo sul parapetto che si affaccia sul lago grande e ci raccontiamo le nostre storie.

Avrei sperato di fare il cronista, invece in una insolita e luminosa mattina di dicembre, mentre sto calibrando un sommario sulle palle colorate di una saga invernale svizzera, mi arriva di spalle Medardo Pitti, vicedirettore, la faccia buona della Vanni, l’uomo che non sa mai dire no, gran mediatore, aspetto sacerdotale, voce suadente, accento siciliano. Prima di quel giorno non lo conoscevo. Anzi, per molto tempo avevo creduto che quella persona che vedevo scivolare lungo i corridoi e nel parcheggio fosse il capo degli elettricisti della Mondadori.

Chissà perché. Vedevo da anni quest’uomo, anche molto tempo prima di arrivare a Grazia, e mai avevo pensato che fosse un giornalista. Credo che sia anche un fatto fisico. Alcuni li riconosci subito. Ci sono a Panorama Giampiero Borella e Carlo Rossella, entrambi inviati. Non hanno nulla in comune, ma il mestiere che fanno è palese. Uno indossa tutto l’anno jeans sdruciti, giacca di velluto, camicia sbottonata, ha la faccia segnata, i capelli in disordine, il taccuino infilato nella tasca posteriore dei calzoni. L’altro veste come un lord inglese, abito grigio scuro, camicia bianca, cravatta regimental, scarpe nere e lucide, la mazzetta dei giornali americani sotto il braccio. Si vede subito che non sono i giardinieri dell’azienda.

Così quel giorno, quando Medardo Pitti mi si acquatta dietro la scrivania e mi mette una mano sulle spalle sono convinto che si tratti dell’elettricista capo.
“Ciao sono Medardo Pitti” dice tendendomi la mano.
“Ho questa dannata macchina che si inceppa sempre” dico, mentre indico la vecchia Olivetti verde portatile che ho in dotazione.
Pitti sorride, scuote la testa, inclina il collo. Muove entrambi come fa Mike Tyson sul ring prima dell’incontro per sciogliere nervi e muscoli.
“Tutti abbiamo avuto una Olivetti di recupero. Qui si comincia così” dice sospirando con quell’aria notarile e curiale “Ma vedrai. Con il tempo tutto migliora”.
Ho come il sospetto che non sia l’elettricista. La conferma arriva dal caporedattore che s’intromette nel dialogo: “Questo è il nostro vicedirettore, Medardo Pitti. Medardo, questo è il nuovo acquisto” dice con un buffetto sull’unica mia spalla che Pitti lascia libera.

Finalmente ho capito. Mi alzo e gli stringo la mano. E’ asciutta, calda. E’ com’è Pitti. Asciutto, idrorepellente, tutto gli scivola addosso e scompare senza lasciare apparente traccia. La Vanni lo tartassa senza pietà e lui esce dalle riunioni cantando. Come un ufficiale inglese prigioniero dei giapponesi. Medita davanti alla finestra. E nei momenti peggiori si sfila un cardigan scuro da ufficio, si mette la giacca sulle spalle e va a gironzolare nel supermarket interno alla Mondadori.

Certo Medardo non è un uomo da battaglie, ma qui l’aria è di calma piatta. Medardo ha una sua specialità. Il lento passaggio dei pezzi. Quello cioè che noi facciamo con una rapidità sorprendente per toglierci dai piedi quello che gli altri scrivono male e dobbiamo rifare al meglio, lui può passarci anche una mattina. Se ne sta là alla sua macchina, le immense finestre affacciate sui prati, lui con il compassato ticchettio della sua macchina, le pennellate di bianchetto, la penna per rimettere tutte le parole a posto“.

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