
Questo post l’ho già scritto quasi uguale qualche anno fa. Ma lo riprendo perché la notizia di oggi è che Ben Smith del New York Times ha twittato una sua raccomandazione su come i giornalisti dovrebbero comportarsi nel caso in cui ricevessero, per la professione che svolgono, un qualche regalo di Natale. Ben Smith dice: mai regali superiori ai 25 dollari e si può accettare se quello che si riceve può essere mangiato subito sul posto.

Siamo spero tutti d’accordo, se non fosse che ho l’impressione che con il Covid di quest’anno la corsa ad omaggiare i giornalisti sarà ridotta a piccoli drappelli. O forse nessuno.
Ma non è sempre stato così.
Ci sarebbe la questione degli omaggi di Natale. Dei cestini, quelli che arrivano per tempo e persino all’ultimo minuto utile. Ben custoditi in un intreccio di vimini, avvolti nel cellophane, ricchi di mistero e di fantasiose leccornie. Puttanate, secondo me. Quante probabilità avrò di ingollarmi quei borlotti di Vigevano Nano o di spatasciarmi di mostarda di Voghera? Zero. Perciò considero la cesta natalizia il subdolo ed estremo tentativo d’ingraziarsi qualcuno. In genere il più vicino possibile al potere.
Il cestino è una volgarità. Al mio primo anno in Mondadori trovo, sette giorni esatti prima di Natale, posata sulla mia scrivania una gigantesca confezione natalizia. Era così imponente che occupava l’intero spazio del tavolo. Ne avevano una ciascuno tutti i redattori, tanto pesanti che i fattorini le spostavano con il muletto meccanico. Sul minuscolo biglietto che lo accompagna leggo: “Auguri da Fininvest!“. Sticazzi.
Decido di non tenerlo. Anzi, m’incazzo anche un po’. Sono un giornalista, credono di avermi con uno stupidissimo regalo? Mi guardano male gli altri, sostengono che il mio è un gesto politico contro Berlusconi. Chiamo i fattorini, lo faccio ricaricare sul muletto e lo rispedisco intatto alla Fininvest. Tempo una settimana e, tra Natale e Capodanno, me lo ritrovo sulla scrivania. Uguale, ma molto più ricco di prima. Hanno aggiunto bottiglie di Barolo d’annata che non c’erano.
Mi arrendo. Lo carico sulla mia piccola Peugeot che avevo allora. Il cesto occupa i sedili posteriori e anche quello anteriore. Viaggio verso Torino con un bouquet di ananas che mi saballonzola sul finestrino. A casa in ascensore non entra, così me lo trascino in auto e vado a suonare il campanello di suor Paola, alla mensa della parrocchia di Sant’Alfonso. Sorrido perché lei lo guarda con sufficienza: “Il vino qui da noi non va bene”. Sfilo le bottiglie di champagne e Barolo e passito. Lì non c’è stato bisogno del muletto, dieci braccia della parrocchia sollevano la montagna culinaria come una piuma.