
La ministra Bellanova ha detto ieri (La Stampa): “Il paternalismo fa solo danni”. Poi non si è espressa esattamente così, ma il concetto è lo stesso: “Davanti a scelte così delicate e cruciali non si può dire si fa così perché si deve fare“. Un rimprovero a Conte, non certo velato, ma in linea con la posizione di Matteo Renzi.
Ci sono due cose che trovo insopportabili nel modo di comunicare di Conte. La prima è quando fa il papà severo per prometterci un “Natale sereno”. Io l’aggettivo sereno non lo sentivo dagli anni Sessanta. E’ come quando Berlusconi diceva giuoco del calcio. La seconda cosa fastidiosa è quando bacchetta i comportamenti degli italiani e ammonisce: “dobbiamo proteggere i nostri anziani”. Fatti gli affari tuoi, premier. A me stesso ci penso io e soprattutto non sono un tuo anziano. Dammi i servizi essenziali ed efficienti, anche sul territorio, e poi vedrai che gli anziani si salvano da soli.
D’altra parte Giuseppe Conte non è De Gasperi, non è Moro, non è Spadolini, non è Craxi, non è De Mita. Ma non è nemmeno Berlinguer e men che meno Pertini. Per fortuna non è Andreotti, ma è l’unico punto che gioca a suo favore. Conte è un avvocato di provincia, senza nessuna caratura o storia politica alle spalle, scelto per fare il primo ministro da Beppe Grillo, che è un comico. E dal M5S la cui filosofia è: uno vale uno. Infatti, Conte è premier e Di Maio ministro degli Esteri.
In fondo, lui è quello che è. Un uomo di modeste capacità gestionali, prigioniero da una parte di un Comitato Scientifico che spesso si contraddice da solo, pasticcione, eccesivamente dedito all’esposizione mediatica che ha come unico obiettivo la chiusura totale del Paese e chi se ne importa dell’economia. E dall’altra una Italia stanca, sfiduciata, incazzata e sempre più povera.
Un Paese che parte da una situazione di debito pubblico che non ha eguali nella nostra storia. Ci vorranno 10 anni per tornare alle cifre del pre- Covid. Un debito già disastroso, ripetto agli altri paesi europei. Che hanno subito la pandemia ma che potranno, grazie ai loro bilanci, riprendersi molto più rapidamente.
Scrive Truenumeb3rs: “
“Il rapporto tra debito pubblico e Pil italiano raggiungerà il 158% alla fine del 2020. Per capire quanto questo anno sia complicato per l’economia italiana non c’è bisogno di grandi numeri, ma basti sapere che il rapporto debito-Pil nella storia era arrivato a questo livelli solo una volta: nel 1919 (158,8%).
La previsione è contenuta nella Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, il principale strumento di programmazione che indica la strategia economica e di finanza pubblica nel medio termine, che il governo sta approvando proprio in questi giorni. Nello stesso documento si dice anche che il debito pubblico tornerà sotto il 130% del Pil – cioè ai livelli precedenti alla crisi da coronavirus – solo alla fine del decennio. Alla fine del 2019 il rapporto tra debito e Pil (l’indicatore giusto per quantificare il debito pubblico di un Paese) era, infatti, al 134,8%.
E’ giusto, però, andare più indietro nel tempo per capire come si è arrivati a questo macigno che pesa sui conti pubblici italiani e che rischia di diventare pericoloso. Dagli anni Settanta in poi il rapporto debito/Pil ha fatto registrare una crescita poderosa, con sporadici rallentamenti, ma i livelli da record – almeno fino alla crisi economica scatenata dalla pandemia – non erano stati più raggiunti”.

Ma che cosa è esattamente il debito pubblico? “E’ doveroso spiegarlo nel modo più semplice possibile. Uno Stato deve spendere soldi (spesa pubblica) per garantire servizi ai propri cittadini, per sostenere la propria crescita economica e i propri investimenti, così come per finanziare il proprio deficit (che si crea quando le uscite superano le entrate, cioè le tasse).
Quando questo denaro viene chiesto in prestito lo Stato contrae un debito: il debito pubblico. In termini più tecnici il debito pubblico può essere definito come l’ammontare complessivo del debito che uno Stato contrae e ha contratto nel passato per soddisfare il proprio fabbisogno. Il debito, in sostanza, viene contratto con soggetti pubblici e privati, nazionali o esteri: dal singolo risparmiatore alle imprese, alle banche, agli Stati. Lo strumento finanziario più utilizzato per raccogliere il denaro è l’emissione di obbligazioni a breve, media e lunga scadenza. Sono i titoli di Stato.
In sostanza, comunque, sono da evidenziare alcuni punti:
Il record storico del 158% è stato raggiunto nel 1919, nel cosiddetto biennio rosso. Le spese sostenute per la Prima guerra mondiale si fanno sentire e l’Italia avrà bisogno ancora di qualche anno per vedere ridurre il debito pubblico.
Ma perché il rapporto debito/Pil crolla alla fine della Seconda guerra mondiale? Negli ultimi due anni del conflitto e nell’immediato dopoguerra un’inflazione spaventosa sbriciola anche il valore del debito riportando il rapporto con il Pil al 40%.
Il debito pubblico italiano inizia a crescere in modo deciso alla fine degli anni Sessanta. Semplificando: la spesa pubblica, in particolare per sanità e pensioni, aumenta. Succede in tutti i Paesi occidentali. Ma, qui da noi, le entrate dello Stato non aumentano in misura pari alla spesa.
All’inizio di questo periodo, però, la crescita del debito viene contenuta dalla Banca d’Italia: stampa moneta per finanziare il deficit. Aumenta l’inflazione e i tassi di interesse restano bassi. Come si vede nell’infografica, però, nei tredici anni dal 1981 al 1994 il rapporto debito/Pil raddoppia. Nel 1985 è all’80,5% ma nel 1994 ha già raggiunto il 121%”.
Fonte: Banca d’Italia, Istat .
I dati si riferiscono al periodo 1861-2019.
Ultima modifica: 2 ottobre 2020.
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