C’è un solo modo per imparare il mestiere di giornalista. Leggere che cosa scrivono gli altri. Questo articolo dell’inviata de La Stampa Lietta Tornabuoni ai funerali di Enrico Berlinguer è un capolavoro.
L’attacco è da pelle d’oca: “Nel chiaro leggero dell’aria serale, nel vento fresco che muove migliaia di bandiere rosse in piazza San Giovanni, Pertini pallido e sfinito si piega a baciare la bara di Berlinguer. La gente lo chiama, lo applaude per tanto tempo, e l’onda del battimani è più forte delle note solenni della musica d’addio. Un milione e mezzo di persone, magari di più, impossibile contarle. Il segretario comunista ha avuto dopo la morte il suo comizio più grande, l’emozione più profonda e il consenso più vasto di tutta la vita”.
Vale la pena leggerlo parole per parola, con calma e con stupore.
Nel chiaro leggero dell’aria serale, nel vento fresco che muove migliaia di bandiere rosse in piazza San Giovanni, Pertini pallido e sfinito si piega a baciare la bara di Berlinguer. La gente lo chiama, lo applaude per tanto tempo, e l’onda del battimani è più forte delle note solenni della musica d’addio. Un milione e mezzo di persone, magari di più, impossibile contarle. Il segretario comunista ha avuto dopo la morte il suo comizio più grande, l’emozione più profonda e il consenso più vasto di tutta la vita. Una folla sterminata, addensata nella piazza ma unita anche nei cortei e altrove per l’intera città, venuta da tutta Italia: bandiere rosse, pugni chiusi levati, fiori rossi, striscioni, canti alti o sommessi. Grida: “Enrico, Enrico”. Fazzoletti rossi. Cartelli. Uno dice: “La grande forza dell’uomo è il pensiero. Tu hai saputo pensare. Grazie, Enrico”; altri ripetono con affettuosità familiare “Ciao, Enrico”; “Addio” è l’unica grande parola stampata in rosso su quella prima pagina dell’Unità che molti portano spiegata in mano o sul petto, come un emblema di lutto o un modo di espressione.
Una immensa manifestazione di forza, disciplina e serietà: ma anche di una malinconia triste, solitaria e finale. Partita dalla sede del partito comunista in via delle Botteghe Oscure, la bara nel furgone dalle pareti dr cristallo, preceduta dalla musica, seguita dai familiari e dai compagni, soffocata di fiori, passa a fatica tra fitte pareti di gente commossa, e dal brutto palazzo rosso percorre uno scenario unico al mondo: il Campidoglio michelangiolesco e i Fori imperiali, le torri medievali e le colonne dei templi pagani e cristiani di Roma. Un corteo lunghissimo ma puntuale: è l’ora fissata anche dalla televisione le quattro e mezzo, quando arriva in piazza San Giovanni. Una piazza speciale: tra le più vaste della città, distesa in pendenza davanti alla basilica, limitata al fondo dalle antiche mura, da quarant’anni è la casa e il palcoscenico dell’emozione comunista, di vittorie, speranze e dolori del partito.
In questa piazza, nell’aprile 1948, nel l’ultimo comizio prima delle elezioni che sperava di vincere con il Fronte Popolare, Togliatti disse che s’era fatto mettere due file di chiodi alle scarpe per poter meglio pren dere a calci De Gasperi dopo il trionfo; e qui venne celebrato il suo funerale laico, popolare, comunista. In que sta piazza, nel giugno felice del 1975, Berlinguer festeggiò il maggiore successo di quel suo compromesso storico che gli oppositori interni chiamavano “il Fronte Impopolare” il risultato elettorale amministrativo che portava i comunisti a rappresentare un terzo degli italiani, ad essere il primo partito a Roma, Mi lano, Torino, Firenze, Vene zia, Napoli, Bologna, Genova, Cagliari e tante altre città.
Un milione di persone accoglie la sua bara quasi dieci anni dopo: la svolta che cambia non c’è stata, il segretario non c’è più. Ci sono in compenso, sul grande palco diviso in tre settori (personalità, partito e famiglia,- delegazio¬ ni straniere) anche alcune delle facce più invise ai comunisti: Fanfani, Forlani, Piccoli, Bisaglia, Gullotti. De Mita è arrivato a piedi, accompagnato da applausi e da qualche invocazione del suo nome. Spadolini è tra i pochi vestiti tutti di nero, cravatta compresa. La brezza spettina i capelli bianchi di Giulio Einaudi e di Alberto Moravia, i capelli neri di Adriana Asti e dt Gigi Proietti. I presidenti della Repubblica e del Consiglio sono arrivati insieme, cosi gli applausi e le grida («San-dro, San-dro») hanno coperto un accenno di fischi che contro Craxi si ripeterà più tardi. E’ l’unico, infimo sussulto polemico: se no tutta la cerimonia, popolare e popolata com’è, si svolge con la dignità, con l’unanimità dolente d’un funerale di Stato.
Tra le delegazioni straniere, l’ordine d’importanza del pel ha messo in prima fila per primo il presidente del Parlamento europeo Dankert, poi il sovietico Gorbachev, poi Yasser Arafat (il più applaudito), il premier cinese Zhao Ziyang, Georges Marchals inagrissimo vestito di blu, Markovlc il presidente della Lega del comunisti jugoslavi, il ministro degli Esteri greco, lo spagnolo Igleslas. Zhao si è fermato a salutare Santiago Carrillo, ha parlato con le delegazioni romena e nordcoreana: coi sovietici, non una parola.
“Avanti popolo, alla riscossa“, esplode il grande canto commosso all’arrivo del furgone funebre, e dura sino a “Evviva il coinunismo nella libertà”. La moglie di Berlinguer è la sola vestita di nero oltre Marisa Cinclari, ancora in lutto stretto per la morte di suo marito Franco Rodano, l’ideologo cattolico comunista che sul segretario aveva avuto tanta influenza. La moglie di Berlinguer porta piccoli orecchini luminosi di perle e non piange. Conserva la lucidità, la fermezza con cui a Padova, durante i giorni dell’agonia del marito, accompagnava la figlia minore Laura a visitare la cappella degli Scrovegni, per distrarla dal dolore e Insieme arricchirne la cultura. Laura è meno eroica, piange; con lei sono gli altri figli di Berlinguer, Marco, Bianca, Maria, la nipote Luisa incinta di sette mesi, il fratello Giovanni, la cognata Giuliana, le zie. “Oggi questa nostra democrazia non può essere sema il partito comunista…”, dice Nilde Jotti nel primo del discorsi d’onore, lacerati dal rombo degli elicotteri della polizia e della Rai. «Vengo a dare una testimonianza di credente e di militante del movimento operaio, compagni e compagne del partito comunista , dice Rosati, il presidente delle Acli.
Sulla piattaforma issata in cima all’altissimo braccio di una gru gialla, Carlo Lizzani librato nel cielo filma dall’alto. Ettore Scola, Angelo Bevilacqua, e Francesco Maselli filmano i dettagli e il corteo «per la memoria storica del partito». “Caro compagno Enrico Berlinguer, ti ringraziamo per lutto quello che hai fatto, per quello che significhi anche qui adesso, in questa piazza”, dice Giancarlo Pajetta. Quei dirigenti comunisti che vogliono stare soli nel dolore si mettono da una parte come Trentin, schiacciano la faccia sulla balaustra come Bufalini, nascondono gli occhi arrossati come Novelli. Oppure girano le spalle al palco, dove ai posti d’onore stanno primo Pecchloli, secondo Zangherl, soltanto terzo Natta: e chissà se vuol dire qualcosa.
Nel chiaro leggero dell’aria serale, Pertini bacia la bara che poi s’allontana. La piazza orfana si svuota molto lentamente. L’ultimo applauso del giorno di lutto è per Letizia Berlinguer, al cimitero di Prima Porta dove ha voluto che il marito venisse sepolto accanto al padre nella tomba della famiglia, anziché accanto a Togliatti e Longo nella tomba ufficiale del partito al cimitero del Verano. E’ una tomba semplice. C’è scritto soltanto il cognome. Ci sono dei fiori rossi.
L’hanno chiusa alle sette e mezzo di sera, mentre gli ultimi lasciavano piazza San Giovanni, sfiniti e tristi, con le loro bandiere rosse arrotolate.
Lietta Tornabuoni