Ai tanti commentatori di questi giorni che guardano scettici alla conduzione di Repubblica da parte di Maurizio Molinari si aggiunge Paolo Guzzanti con un lungo pezzo pubblicato da Il Riformista e che riporto qui per intero.
“Che cosa sta succedendo a Repubblica da quando Maurizio Molinari ne è diventato direttore con la cacciata dalla mattina alla sera di Carlo Verdelli, dopo un solo anno di lavoro? Una intervista scoop ai rapitori di Silvia Romano si rivela una bufala. Una foto dei Navigli milanesi affollati malgrado il Covid 19 viene sputtanata sui social come farlocca, alterata. Un improvviso guizzo forcaiolo mette del tutto a sorpresa Repubblica in competizione con il Fatto, per non dire della linea politica sdraiata su quella del governo, osannato con titoli barocchi. Per aiutare il lettore, specialmente se giovane, dichiaro subito il mio conflitto di interessi (ideali) e la mia inevitabile asimmetria, per avvertirlo – a sua tutela – che sono poco oggettivo anche se del tutto onesto.
Come forse qualcuno ricorda, feci parte della prima ciurma assunta da Eugenio Scalfari nel dicembre del 1975 per varare il primo quotidiano tabloid italiano che sarebbe uscito per la prima volta dalle rotative il 14 gennaio del 1976 col nome di la Repubblica. Poiché provenivo dalla direzione di un giornale regionale e prima ancora da un decennio di giornalismo all’Avanti! ai tempi di Pietro Nenni e Giacomo Mancini (lo stesso che salvò dall’arresto Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi condannati in primo grado per le rivelazioni sullo scandalo dei fatti del 1964, facendo del primo un deputato milanese e del secondo un senatore a Sapri) diventai per caso il primo caporedattore notturno del neonato giornale. Poi mi liberai di quella fatica notturna e diventai pian piano una delle firme di quel giornale, sicché conservo con piacere la dedica che Scalfari mi scrisse sul suo La sera andavamo a via Veneto: “A Paolo Guzzanti, creatura bizzarra grazie al quale Repubblica è quel che è, e senza il quale non sarebbe ciò che è”. Vecchie glorie ingiallite, d’accordo, ma sempre glorie.
Quel giornale nacque e si impose non solo come quotidiano ma anche come oggetto, come griffe, inghiottendo l’argenteria del quotidiano comunista Paese Sera, e poi, grazie allo scandalo della loggia di Licio Gelli P2 sorpassò il Corrierone di via Solferino che perdeva tutti i pezzi, fra cui il direttore Piero Ottone che l’aveva spostato a sinistra con la firma di Pier Paolo Pasolini, e che Scalfari detestava e per puro sfregio, assunse. An other country, an other time. Non sto a rifare la storia del giornale di piazza Indipendenza ma voglio ricordare che quella storia fu esaltante e unica, perché c’era un uomo solo al comando, Eugenio Scalfari che oggi ancora bravamente si difende malgrado l’età veneranda. Inventando la Repubblica con quella sua anima, Eugenio è stato un personaggio unico in Europa e perché fece un giornale unico e irripetibile, persino con un eccesso di identità. E l’identità è quella cosa che se c’è, l’individuo è vivo; ma che se vola via, l’individuo è morto chiunque ne indossi i panni.
Quando Carlo De Benedetti (che nel frattempo era diventato l’editore unico) decise – come mi confermò in libro-intervista, di disfarsi del caro fondatore, organizzò nel 1996 una bella cena a casa di Carlo Caracciolo e lì – con le dovute maniere e gli inchini di rito – Scalfari fu archiviato nel ruolo di “Fondatore” e Ezio Mauro (che era stato fino a quel momento il mio direttore a la Stampa dove ero trasmigrato nell’agosto del 1990) prese il suo posto. Il giornale ebbe allora molte reazioni, alcune anche di rigetto, ma poi si assestò. La seconda Repubblica era un opulento giornale della sinistra vicina al Pd ma certo non somigliava molto a quello di Scalfari. Giunto al ventesimo anno di direzione, Ezio volle lasciare e al suo posto andò Mario Calabresi che distribuiva opinioni e fatti con ordine anonimo. Fu così che quando giusto un anno fa riaprii Repubblica guidata da una persona che ancora non conoscevo, Carlo Verdelli, ebbi la sorpresa con molti lettori di una strepitosa novità: è tornata Repubblica. Non la Repubblica del passato, ma un altro giornale che però riaccendeva memorie, sorprese, invenzioni. Tutto andava bene, ma invece si arriva di colpo al cambio della guardia con l’insediamento di Maurizio Molinari, che nel frattempo era stato un ottimo direttore della Stampa di Torino.
L’avvicendamento fra Verdelli e Molinari è accaduto a causa di un dramma familiare: i figli di Carlo De Benedetti da tempo non volevano più saperne della carta stampata e, contro il parere del loro padre infuriato, avevano messo Repubblica, l’Espresso e giornali della catena sul mercato. Dopo un paio di mesi la nuova Fiat di Elkann comperò tutto il gruppo che era stato di De Benedetti e con una sola telefonata licenziò in tronco Verdelli per far posto a Molinari, che lasciava la Stampa in un girotondo di nomine. Tutto normale, nel duro mondo dell’editoria.
Anche se ci sono modi e modi. Verdelli, inseguito dall’affetto della sua redazione che aveva conquistato in un anno o poco più se ne va lasciando la sedia a Molinari ma accadono eventi editorialmente inauditi, nel senso che non si erano uditi mai. Scalfari – prossimo al secolo e che si definisce «vegliardo» – scrive in un articolo che essendo lui il Fondatore e dunque titolare del genoma di Repubblica, avrebbe posto sotto osservazione il nuovo direttore, raccontando anche di avergli parlato a quattr’occhi, senza però riferire che cosa Molinari avesse risposto. Cose veramente mai viste. Ma immaginiamo che un atto del genere abbia costituito una discreta pressione su Molinari.
Come se non bastasse, De Benedetti ha annunciato, furioso, la fondazione di un nuovo giornale diretto da Lucia Annunziata, anche se assicura non tenterà di portarsi via le firme storiche. Anche il neo direttore Molinari aveva esordito con una stranezza non simpatica: nel rituale passaggio delle consegne, non aveva neppure nominato il predecessore Verdelli. Una inconsueta scortesia. Un terzo elemento di pressione esterno è venuto dal fatto che a Repubblica si dà per scontato che il nuovo editore e quindi il suo direttore, vogliano imprimere una “svolta a destra” al giornale.
È dunque possibile che Molinari, persona per sua natura compostissima, si sia sentito minacciato, accerchiato, abbia reagito con eccesso, mandando Repubblica fuori controllo. Infatti, senza alcuna ragione giornalisticamente comprensibile, Repubblica si è messa in competizione con il Fatto di Travaglio, ammanettandosi ai manettari durante la rissa fra ministro Sbircia-Sigilli e magistrato Di Matteo, cercando di far sua la crociata per ricacciare in cella “i boss” che, grazie alla pandemia del Covid erano erano stati trasferiti dal 41 bis agli arresti domiciliari, anche per mettere in sicurezza gli agenti penitenziari.
Come ha ricordato Piero Sansonetti su questo giornale i numeri dei reclusi che hanno beneficiato di questa utile precauzione salutare e umanitaria, e la loro pericolosità non sono in alcun modo proporzionati a un allarme così carico di elementi forcaioli. L’unica spiegazione è che Molinari, infastidito dalle profezie che lo danno per uomo “di destra” che certamente non è, abbia adottato lo slogan francese Pas d’ennemis à gauche, mai avere mai nemici a sinistra, specialmente se devi fare una politica di destra. Sarebbero le nostre solo congetture se però non fossero capitati altri incidenti: ecco che salta fuori uno screenshot di Repubblica. Una foto che testimonierebbe l’affollamento sui Navigli milanesi in barba al Covid 19 viene smontata sui social come taroccata, cioè manipolata e dunque falsa. Pubblicare immagini certe e certificate oggi è difficilissimo perché tutti sappiamo che Photoshop e fake, manipolazioni e falsi, costituiscono il nuovo scivoloso terreno sul quale chi fa un giornale rischia di farsi male. Una foto, si dirà, è soltanto una foto, ma non si tratta solo di questo.
Repubblica sempre più appare sdraiata sulla linea dell’avvocato Conte e il suo sciagurato governo. E così la Repubblica di ieri apriva la prima pagina con una intervista al ministro dell’Economia Gualtieri sotto un titolo baldacchino, assolutamente sottomesso: “Capisco la rabbia. Aiuteremo tutti”. Già vi par di sentire il caposcorta che sussurra: “Presto, eccellenza, non c’è un momento da perdere, la folla è inferocita, i gendarmi sono pochi e male armati, ma un sottomarino ci attende al largo”. E poi, colmo della sfiga, arriva questo scoop su Silvia Romano che porta Repubblica a un incidente – ooops – di un genere sconosciuto al suo direttore. Che succede? Che il quotidiano pubblica una segretissima intervista (del genere detto in gergo “aum-aum”, cioè senza prove certe) con un sedicente membro della banda che ha rapito Silvia Romano, e poi si scopre che quel tizio che ha parlato con Repubblica è morto da 6 anni. Hanno fatto uno scherzo? Se lo sono fatto da soli?
La gola profonda si era qualificata come un pezzo grosso del jihadismo e portavoce dell’organizzazione al-Shabaab, che ha tenuto prigioniera per tutto questo tempo la povera Romano, raccontando dettagli sul rapimento e le sue conseguenze. E poi salta fuori un vero appartenente vivo dell’organizzazione che dichiara che questo Ali Dehere era stramorto. Anche la credibilità comincia a soffrire. Tutte cose che capitano, per carità. Ma quando capitano a un direttore incartato nella plastica con le palline e che sembra aver preso le prime curve a centocinquanta, be’, si resta interdetti. lo ammiro Molinari come analista e scrittore e credo lo sappia. Ma proprio per questo vorrei dirgli, come faceva parte del genoma originario, perché non provi a fare Repubblica senza effetti speciali da autoscontro? Questi accidenti raramente portano bene”.
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