giorgio levi

Fascisti erano, fascisti sono. Ora i giornalisti scendano in piazza

Forse non è soltanto, come scrive benissimo oggi su La Repubblica il direttore Mario Calabresi, a proposito delle allucinanti dichiarazioni di Di Maio e Di Battista, che, dopo il caso Raggi e la piazza anti Appendino di Torino, “hanno perso la testa”. C’è qualcosa di più.

Mio padre sosteneva che alla fine della guerra non si era fatto abbastanza per togliere di mezzo tutti i fascisti che avevano sostenuto, combattuto, difeso la Repubblica Sociale, l’ultimo sanguinario brandello del fascismo di Benito Musssolini. Diceva che troppi erano sfuggiti alla giustizia, chi scappando in Sud America, chi nascondendosi nelle macerie di un Paese che, chiusa quella parentesi di morti e lutti, pensava soprattutto alla ricostruzione.

Basti pensare che Giorgio Almirante, tra i primi firmatari del manifesto delle Leggi Razziali del 1938, aveva avuto il tempo di ricostruire il Movimento Sociale con gli stessi principi a cui si ispirava Mussolini, anche se la Costituzione repubblicana aveva messo fuorilegge il fascismo e chiunque avesse provato a ricostituirlo. Almirante sedeva addiruttura in Parlamento e con lui altri loschi individui che non avevano pagato il conto dei loro vent’anni di malefatte e distruzione e morte.

L’idea di mio padre però andava bene negli anni Sessanta. A lui, che aveva subito la decimazione della sua famiglia ad Auschwitz, pareva una bestemmia vederli seduti in un parlamento nato dalla guerra di Liberazione. In realtà quei reduci in camicia nera non erano stati che gli interpreti di un pezzo di storia terribile del Paese.

Il fascismo non è morto nemmeno quando tutti questi se ne sono andati per sempre. Perché il fascismo non è mai stata una idelogia, come il comunismo, che alla fine è morto davvero. Il fascismo interpreta in maniera grossolana, senza alcun fondamento culturale, alcuni sentimenti diffusissimi tra gli italiani che stanno ai margini della società. Gli ignoranti, gli incolti, i perdenti eterni, i cattivi maestri, i razzisti, quelli che vedono nel progresso, nella gente che arriva da altri Paesi e nell’Europa il nemico con cui entrare in guerra.

E’ un terreno fertile questo, sul quale il M5S e la Lega hanno trovato il consenso che cercavano. E chiunque si frapponga tra loro e le loro piante da coltivare, è un nemico da spazzare via. Primi tra tutti i giornalisti, le puttane, come li hanno definiti ieri. Dovrebbe muovere ondate d’indignazione un’affermazione del genere. Invece, siamo nel 2018 e quel terreno fertile, schiavo di una piattaforma informatica, si stringe e si compatta con i loro leader.

Erano fascisti quelli che mio padre temeva, sono fascisti questi che mio padre non ha conosciuto. A dimostrazione che il fascismo si rigenera, cambia volti e interpreti, si adatta ai tempi che vive, come tutte le cattive piante non si riesce ad estirpare.

I vent’anni del governo Berlusconi hanno alimentato questo sottobosco che una volta defenestrato il padrone, sono esplosi in tutta la loro rozzezza. Ora c’è un rischio concreto per la libertà di stampa e d’impresa. Gli editori sono entrati nel mirino del M5S che minacciano ritorsioni come se fossimo tornati nel 1922.

E’ il momento di compattarsi, chi se ne importa se l’Ordine dei giornalisti è vetusto, ora va difeso, la categoria deve ritrovarsi, stare unita. Anche con gli editori, per quanti danni abbiano prodotto quando non hanno saputo investire quanto avevano guadagnato nell’epoca d’oro degli anni Settanta e Ottanta.

Pazienza, le rivendicazioni possono aspettare. Siamo su un fronte comune. Scendiamo una volta in piazza con gli editori e i nostri lettori, Torino insegna che si può fare. E mettere a tacere i fascisti che ci governano.