giorgio levi

“I pagamenti in contanti ai collaboratori non esistono”. Lo sentenzia la Corte di Cassazione. Per diventare pubblicisti necessaria la “tracciabilità dei compensi”

Se desiderate ardentemente iscrivervi all’albo dei pubblicisti sappiate che da ora in poi i pagamenti degli editori in contanti, per le vostre collaborazioni, non sono validi ai fini dell’ottenimento dell’agognato tesserino. Lo ha sentenziato la Corte di Cassazione che ha stabilito il principio secondo cui i versamenti in contanti dei compensi agli aspiranti giornalisti pubblicisti non dimostrano “la regolarità della retribuzione ed è quindi plausibile la simulazione, in tutto o in parte, del pagamento”.

Con la sentenza 24345/17, la seconda sezione civile del Supremo Collegio ha confermato una delibera del Consiglio dell’Ordine della Sicilia, respingendo la richiesta di iscrizione all’albo di un’impiegata di banca, collaboratrice di un periodico. A fare ricorso contro le decisioni del Tribunale e della Corte d’appello di Palermo, che avevano confermato la delibera dell’Ordine regionale, era stato il Consiglio nazionale dell’Ordine, le cui censure sono state ritenute adesso del tutto infondate e che è stato condannato alle spese e a versare il doppio del contributo di ricorso.

Il collegio presieduto da Vincenzo Mazzacane, relatore Raffaele Sabato, ha ritenuto “condivisibili i criteri ordinistici”, che ritengono “necessario il riscontro della regolarità dei compensi ai sensi di legge”. Indispensabile anche “la tracciabilità dei pagamenti”, perché gli editori hanno “interesse a non avere esborsi” e i collaboratori “ad ottenere l’iscrizione pur senza effettivi pagamenti”. Per questo motivo, a dimostrare di essere stati retribuiti in contanti devono essere gli aspiranti pubblicisti, non è l’Ordine né il giudice a dover provare che i compensi non siano stati corrisposti.

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