giorgio levi

Viva il Primo Maggio dei giornalisti, ma i Comitati di redazione disertano la Festa dei Lavoratori

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C’eravamo, anche quest’anno. Sotto la pioggia (per la temperatura atmosferica avrebbe potuto essere il 1° dicembre e nessuno avrebbe notato la differenza) ma lo striscione della Subalpina ha fatto la sua figura. Sempre pochi a sfilare,  tuttavia in numero crescente rispetto alle ultime edizioni, e ben rappresentati. Tasselli preziosi di questa categoria così sfiduciata e impaurita dai tempi. Lavoreremo? Che ne sarà dei giornali e della nostra occupazione? Saremo freelance forzati per sempre? Torneremo ad avere in tasca stipendi o compensi adeguati agli sforzi che facciamo per dare a questa professione un minimo di dignità? Riusciremo a mantenere una famiglia? Le risposte oggi nessuno le ha, ed è questa l’incognita che angoscia e che spesso divide. E’ così ora, come spesso lo è stato in passato.

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Ogni era ha i suoi interrogativi. Quando i giornali erano ricchi gli editori incassavano e non investivano sul futuro. Basti pensare al ritardo con cui hanno finalmente cominciato a capire che la rete avrebbe messo in ginocchio l’intero mondo dell’informazione. Le notizie sono dove sono sempre state, da secoli. La materia prima che muove l’intero mondo dell’informazione è esattamente dove è sempre stata. Vent’anni fa, se avessero voluto e soprattutto investito in modo adeguato, gli editori avrebbero già dovuto capire che la distribuzione del futuro non sarebbe più stata soltanto la carta. Invece no, facevano cassa con la pubblicità e questo era sufficiente. Assumevano, è vero, ma costruivano redazioni giganti senza pensare che un domani, così diverso da quel presente, sarebbe arrivato. Il risultato di tanta incapacità programmatica manageriale è quello che oggi abbiamo sotto gli occhi. E che loro chiamano crisi globale. Un par de balle. La crisi c’è perché non erano all’altezza del loro compito. Adesso la pagano gli stessi editori, noi e anche i nostri lettori, soprattutto i più giovani, che s’informano sui social pensando che basti Facebook al loro arricchimento culturale.

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Tutto questo dovrebbe essere sufficiente a mobilitare un’intera categoria, ad una ribellione generale forte, a non accettare compromessi, a schierarsi contro, a non credere che le concentrazioni editoriali porteranno ricchezza. A tracciare una linea netta e ben marcata tra noi e i loro proclami. A trovare accordi solo su piani industriali reali e non fittizzi o vaghi. Noi siamo giornalisti e lavoratori, loro devono ancora dimostrare di capire come funzionano le aziende che governano. Per adesso in modo assai approssimativo.

Perciò sarebbe stato importante avere nel corteo anche i comitati di redazione della testate torinesi che contano all’interno della Fieg. I colleghi che lavorano nelle redazioni, che stanno a contatto con questi mutevoli e disperati cambiamenti. I Cdr che sono parte del sindacato e che rappresentano altre decine e decine di giornalisti. Invece non c’erano. Qualcuno dirà, come sempre. E’ vero, ma i tempi sono cambiati,  considerarsi estranei alla realtà è un errore.

Si può non essere d’accordo con molte delle posizioni della Fnsi (l’ultima firma del contratto nazionale, per dire) o dei sindacati che ci rappresentano a livello locale, ma non si può e non si deve essere assenti. E’ necessario tornare al confronto anche duro tra noi, trovare una strada che unisca. La partecipazione al corteo del Primo Maggio ha in fondo un valore simbolico, non risolve nulla, ma se i Cdr ci fossero stati, molti di noi si sarebbero sentiti meno soli e forse più confortati. Dovranno assumersi la responsabilità di questa mancanza, più di quanto è accaduto con le assenze nei cortei del passato. E non per l’oggi, ma per il domani, che non escluderà nessuno e non sarà una passeggiata piovosa nel centro di Torino.

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