giorgio levi

La Stampa nel gruppo di Repubblica. Maurizio Molinari: “C’è scritto nero su bianco. Resteremo una testata indipendente”

molinari

da sinistra Sfefano Tallia, Maurizio Molinari e Alberto Sinigaglia

E’ alle nove del mattino l’incontro con il direttore della Stampa Maurizio Molinari. Quando esco di casa diretto a Palazzo Ceriana immagino quello che sentirò dire.  Anche se in fondo spero sempre di sbagliarmi. In quarant’anni di questa professione, nelle quindici testate giornalistiche dove ho soggiornato per brevi o lunghi o infiniti periodi, non ho mai sentito una sola volta, nel mezzo di una crisi economica o finanziaria o di mercato, un solo editore o direttore dire l’unica cosa ragionevole e condivisibile che mi sarebbe piaciuto ascoltare: “Colleghi, è difficile ammetterlo. Ma da soli, in questo mondo globalizzato, non potevamo più farcela. Abbiamo ceduto il giornale al nostro maggiore concorrente. La crisi ci ha fermato, il passaggio era obbligato, altrimenti avremmo chiuso presto o tardi. Il nuovo editore ci assicura la massima indipendenza. Sappiamo che sarà molto difficile mantenerla, avremo tempi duri, non so dirvi come andrà la convivenza, ma lotteremo con tutte le nostre forze per difendere la nostra libertà. Lo dobbiamo a noi stessi e ai nostri lettori”.

Mai sentito nulla del genere. Forse lo aveva detto una volta Montanelli, ma non ho avuto la fortuna di lavorare con lui. L’altro giorno un collega mi dice quello che già Mentana aveva espresso pubblicamente: “Ma perché fai tanta polemica? Credi che alla gente importi qualcosa se La Stampa è di un editore e non di un altro? E’ un dibattito tutto autoreferenziale, frega niente a nessuno fuori da qui. Se Elkann vendesse la Juve allora vedi che casino, ma un giornale è un giornale”.

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So benissimo che al baruccio di corso Tassoni, dove faccio colazione, nessuno si strappa i capelli se il padrone della Stampa è un tizio o un altro. Anche perché qui il giornale più sfogliato è Torino Cronaca. So tutto, ma sono convinto che le concentrazioni editoriali (o polo come si dice adesso) sono un danno, non un bene. Più giornali stanno in un mega gruppo, più si restringono i margini dell’indipendenza delle testate. Più la raccolta pubblicitaria si concentra in un’unica agenzia, più la torta per i piccoli editori, già con l’acqua alla gola, si restringe. Il pensiero unico o collettivo o di massa è insopportabile, figurati se ad esprimerlo è un gruppo di giornali con un unico padrone.

E’ il mercato, che vuoi farci? Beh, niente, io da solo. Questo non toglie nulla al fatto che le agglomerazioni editoriali, sotto il profilo della libertà di espressione, chiudono porte invece di aprirle. Prima o poi, come lettori e società, pagheremo il conto di tutto questo.

E’ con questi fulgidi pensieri che mi siedo in sala Toniolo. E’ quasi primavera e pioviggina come d’autunno, e questo non favorisce il buon umore.  L’atmosfera è quella di sempre, piacevole quando ci si ritrova tra colleghi. Cerco qualche bastian contrario come me. E’ dura. Il settimanale della diocesi di Torino La Voce del Popolo, in un reportage sulla fusione editoriale, ha appena scritto che sono “una penna poco convenzionale” e che per commentare gli accadimenti uso “toni scolpiti”. In fondo è vero. Ma posso nascondermi?

Molinari è un uomo per bene, l’ho scritto in passato su questo blog  in tempi non sospetti di piaggeria. L’ho detto qui il 18 gennaio del 2014 (quando venne nominato corrisponente da Gerusalemme) e qui il 26 novembre del 2015 (il giorno della nomina a direttore de La Stampa).  E prima ancora nel 2012 in un capitolo di “Volevo essere Jim Gannon”. E’ premuroso nel rassicuraci: “L’anima di questo polo è mantenere le differenze e rafforzare le identità di ciascun giornale. Negli accordi che sono stati presi c’è nero su bianco: le testate restano indipendenti. Se ciò non accadesse si avrebbero risvolti negativi sul mercato”. Molinari, in sostanza, difende questo genere di aggregazione che è “orizzontale e non verticale”  come è sempre accaduto in Italia in passato. E’ una caratteristica dell’editoria Usa: unire più giornali sotto uno stesso editore, ma non sovrapporli. Le testate, dice, si affiancano, distinte le une dalle altre nei contenuti, e questo attiva il mercato pubblicitario. Dice Molinari: “I prodotti fotocopia non funzionano ed è quello che è sempre stato fatto prima in Italia con risultati negativi”. E allora in comune che cosa c’è? La produzione, la distribuzione, la pubblicità. “La chiave è la fusione orizzontale”.

Questo aprirà le porte in futuro ad una task force che si occuperà di nuove creazioni editoriali per arricchire le testate del polo. Poi il capitolo dello sviluppo tecnologico senza dimenticare “che il vecchio mestiere è quello di sempre. Le notizie devono essere credibili, fondate e provate”. L’ideologia è esattamente il contrario di questa espressione.

Molinari è entusiasta del suo giro nelle redazioni di provincia della Stampa e l’integrazione tra i colleghi di Savona e Sanremo con gli amici-nemici di un tempo del Secolo XIX meriterebbe la scenggiatura di un film tanto è stata sorprendente.

Infine i ricavi pubblicitari, così in picchiata in questi anni: “Adesso si potrà andare dai grandi investitori e proporre una piattaforma editoriale più forte”.

Gli dico che mi sta a cuore la faccenda che con l’ingresso della Stampa nel gruppo di De Benedetti, con il potere decisionale che si trasferisce da Torino a Roma, questa città perde un altro pilastro, dopo l’Einaudi, della sua centenaria storia culturale. Qui il giornale, a Roma le strategie. Molinari dice che l’editore avrà una presenza forte sul territorio. Può darsi. Ma se oggi John Elkann è l’azionista di maggioranza, tra un anno, alla chiusura dell’ “integrazione”, avrà il 5% della società. C’è qualcosa che non va.

Al minuto ’75 finisce l’incontro, non piove più. Resto con tutti i miei dubbi, ma sono contento che questo direttore sia venuto a dirci come stanno le cose, secondo la sua opinione. Ho conosciuto direttori in passato che si rifiutavano di aprire le porte del loro ufficio per molto meno. Qui aveva chiesto Molinari d’incontrarci. Abbiamo fatto un passo avanti e per giunta pubblico, non nel chiuso di una redazione. Il giorno che avremo anche i dati di vendita dettagliati e i ricavi esatti pubblicitari di Repubblica, Stampa e Secolo XIX capiremo meglio.

Alla fine la domanda però resta sempre quella: un grande gruppo editoriale è la negazione del pluralismo? Sono convinto di quello che la storia, in ere tecnologiche differenti, ci ha sempre detto: più giornali, più libri, più editori sono l’unica vera garanzia di libertà. Sarà poco globale, o glocal, o quello che si vuole, ma fino ad oggi è stato così. Che razza di vecchio sono diventato.

 

 

 

 

One thought on “La Stampa nel gruppo di Repubblica. Maurizio Molinari: “C’è scritto nero su bianco. Resteremo una testata indipendente”

  1. Molinari ha detto quello che doveva. La Stampa è sempre stata considerata un balcone da cui guardare l’Italia, mai una voce. I direttori che si sono succeduti, pochissimi i piemontesi, lo hanno considerato più un taxi verso altre testate più blasonate e remunerative che una fuoriserie da fare gareggiare in campionato, in champions o a un mundial. Le redazioni locali poi sono state sempre considerate un po’ come avamposti buoni per scrivere di sagre e incidenti stradali. Crescita professionale? I soliti noti. Con questi presupposti non poteva che finire così. E la cosa m’intristisce molto. Perché sono stato 11 anni da precario in quel giornale e, pur avendo dovuto uscirne per crescere professionalmente, l’avrei voluto più grande competitivo e in grado di “comprarsi” Repubblica. Lo so, è una roba da ingenuo romantico del cacchio. Però lo avrei preferito davvero. Così le rassicurazioni di MauMol per quanto mi riguarda non fanno che aumentare i timori: quello piemontese non sarà il panino di De Benedetti, ma un buon tramezzino di certo. Peccato.

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