giorgio levi

Il mio compagno Edoardo Agnelli

Sono stato compagno di scuola e amico d’infanzia di Edoardo Agnelli. Tra qualche giorno saranno undici anni che è morto. Voglio ricordarlo oggi riportando qui il pezzo che scrissi per Epoca nel settembre del 1990, quando Edoardo finì in quella brutta faccenda di droga a Malindi. Con Edoardo e sua sorella Margherita ho trascorso numerosi pomeriggi di giochi nella loro casa di corso Matteotti quando bambini frequentavamo la stessa scuola elementare a Torino. Edoardo era più giovane di me, Margherita era compagna di classe di mia sorella Elisabetta.

Nel 1990 ero un giornalista della Mondadori, l’affaire di Malindi destò molto scalpore. In una pausa mensa raccontai all’allora direttore di Epoca Nini Briglia la mia infanzia a casa Agnelli. Così Briglia mi chiese di scrivere un pezzo per raccontare la mia storia. Epoca dedicò la copertina a Edoardo. Molto tempo dopo il mio caro amico Massimo Burzio (che frequentava con me i pomeriggi in corso Matteotti e che avrebbe poi avuto un ruolo di primo piano alle relazioni esterne della Fiat e che è purtroppo scomparso di recente) mi disse che l’avvocato Agnelli aveva chiesto che quel mio pezzo avesse un rilievo nella rassegna stampa dell’azienda.

Quando Edoardo morì nel 2000 non ero ancora assunto a La Stampa, ma già collaboravo. Cercai di spiegare a qualche capo redattore che forse sarebbe stato carino riprendere quell’articolo. Ci fu un silenzio glaciale. Mentre quel giorno stesso uscivo da via Marenco mi chiamò l’allora capo de La Repubblica di Torino, il quale mi chiese se poteva ripubblicare il mio articolo. Il giorno dopo uscì per intero nell’edizione torinese del giornale.

Oggi lo riprendo qui (nella foto la riproduzione di Epoca) e lo dedico ad un ragazzo sfortunato e soprattutto incompreso.

INFANZIA DI UN CAPO

A scuola andavano a piedi. Edoardo e Margherita percorrevano i pochi isolati, tra il palazzo di corso Matteotti e la scuola elementare di Stato Giosuè Carducci per mano alla loro fedele frau svizzera. Erano i primi anni Sessanta, gli anni della massiccia immigrazione dal Sud. La scuola Carducci era al confine tra i quartieri della ricca borghesia e quelli ghetto del centro storico. Nella classi trenta, quaranta bambini: figli di operai, disoccupati, industriali, medici, avvocati. E anche di Agnelli. Margherita era una bambina vivace, allegra. Edoardo, più vecchio, era riservato, timido. A scuola arrivavano puntuali, con i quaderni in ordine, ben rilegati.

Gli Agnelli, attivi sostenitori del Patronato scolastico, per rendere, forse, meno tristi i fine settimana dei bimbi meno abbienti, il sabato pomeriggio organizzavano delle grandi feste a casa loro. Margherita ed Edoardo non facevano distinzioni di classi sociali. Anzi, proprio in quel periodo la più cara amica di Margherita era la figlia del cuoco di casa Agnelli che, ironia della sorte, si chiamava Padroni.

Si arrivava a casa Agnelli nel primo pomeriggio. Sotto l’androne d’ingresso un maggiordomo accoglieva i piccoli ospiti. Poi si saliva all’ultimo piano per la festa. In una stanza enorme che poteva tranquillamente contenere la casa di Padroni, la nostra e quella di molti altri, Edoardo e Margherita tenevano i loro giochi. Impossibile ricordarli tutti, quella camera era davvero il Paese dei Balocchi. Arrivavano dagli Stati Uniti, dalla Germania, dall’Inghilterra. Giocattoli solidi, robusti, con movimenti tecnici e meccanici, assolute novità che in Italia avremmo visto soltanto molti anni dopo.

La frau svizzera disponeva i maschietti da una parte e le femminucce dall’altra. Con Edoardo mi trovavo a disagio. Se si giocava a calciobalilla (non il solito dei bar, ma una faccenda molto più complessa e divertente) lui teneva i giocatori con le maglie bianconere e agli altri, me compreso (sfegatato juventino) toccavano quelli con la maglia granata. Se si giocava con le automobiline lui correva su un terrazzo, che si affacciava sulla stanza dei giochi, con una stupenda auto elettrica. Noi stavamo a guardare. Le uniche concessioni alla guida che Edoardo faceva erano per i cugini Camerana.

Alle cinque si scendeva di un piano, in ascensore, e si andava a “fare la merenda”, dove la mamma Marella veniva a salutarci, sempre tutta molto sorridente. Poi, finita anche la merenda, veniva il cinema. Andavamo in un sotterraneo dove era allestita una autentica sala cinematografica. Con moquette rossa, poltrone di velluto in tinta, schermo gigante, film per bambini di prima visione. Il cinema non divertiva molto Margherita che, a metà della proiezione, cominciava a fare casino. Non credo di avere mai visto un film fino alla fine.

L’ora dell’arrivederci era nel tardo pomeriggio. Scendevamo nell’atrio dove ci aspettavano i nostri papà. C’è solo un particolare, un mistero mai risolto che mi è sempre rimasto. I rubinetti dei bagni di casa Agnelli erano di colore giallo. Mia sorella Elisabetta lo raccontò a casa. “Che schifo – osservò nostra madre – hanno i rubinetti d’oro”. Mio padre, più pratico, mi disse un sabato, alla vigilia di una di quelle feste: “Se non ti vede nessuno cerca di portare via una doccia”.

(5 settembre 1990, Epoca numero 2082, Arnoldo Mondadori Editore)

6 thoughts on “Il mio compagno Edoardo Agnelli

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  4. Mi permetto di svelare l’arcano: quella rubinetteria non era d’oro, ma dorata. Mio nonno, Alessio Agostino e mio padre Alessio Osvaldo gestirono per trent’anni tutta l’impiantistica idraulica ed elettrica della Casa. Ricordo, allora io bambino, che mio nonno impazzì per rintracciare un “indoratore” a Torino. Nessuno era in grado di effettuare quest’operazione su rubinetteria e varie. Mi pare di rammentare, ma non sono certo, che riuscirono poi a trovare chi eseguì il volere di Donna Marella a Milano.
    Spero di aver contribuito nello svelare il MISTERO.
    Fulvio Alessio

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