giorgio levi

Parole che si dicono

Parole che si dicono è il titolo di una canzone di Ivano Fossati (album Musica Moderna, 2008). Anche queste sono parole che si dicono. Per quel che valgono, ovviamente. Vorrei chiedere scusa a Fossati per l’uso improprio.

Con Carlo Verdelli ho giocato qualche volta a pallone, quando entrambi eravamo in Mondadori. Lui era un giovane redattore di Epoca, negli ultimi anni del glorioso settimanale. Io, nel calcio una mezza sega, entravo solo se c’era da rifilare qualche calcione agli avversari. Quasi sempre venivo espulso. Quindi, in realtà non giocavo mai. Verdelli era un leader sul campo e un rampantino in redazione. Molto bravo, con i tacchetti e con la macchina da scrivere. Un paraculo, secondo i malevoli colleghi milanesi. Un direttore nato, secondo i suoi estimatori, che non erano pochi.

Con Maurizio Molinari ho lavorato nei miei primi anni alla Stampa. Tra un contratto e l’altro , tra un contratto e l’altro, tra un contratto e l’altro, sono stato più di un anno alla redazione Esteri, diretta allora dal durissimo Mario Varca. Molinari era il corrispondente da New York. Per me esordiente era quanto di meglio potesse capitare. Un vero e proprio perfettino. Se all’una di notte c’era da ribattere un pezzo lui lo rispendiva in tempi brevissimi, senza una sbavatura ed esattamente della lunghezza dell’articolo che andava a sostituire. Per un lunghista appena arrivato il collega ideale. L’ho sempre ammirato molto per questa sua capacità di sintesi, anche a notte fonda, quando non vedi l’ora di chiudere le pagine.

Carlo Verdelli ieri è stato letteralmente silurato dal suo nuovo editore. Verdelli è sotto minaccia di morte da parte di un gruppo politico di destra. Ieri 23 aprile sarebbe dovuta essere la data segnata per l’esecuzione della condanna. Verdelli, che è sotto scorta da qualche mese, sta bene. Una curiosa coincidenza. Ha ricevuto 10 mila tweet con l’hashtag #iostoconverdelli per la mobilitazione sui social lanciata da Articolo 21 e Fnsi. All’appello hanno risposto, fra gli altri, anche Gad Lerner, Ezio Mauro, Massimo Giannini, Paolo Berizzi, Mauro Biani, il segretario generale della Federazione Europea dei Giornalisti Ricardo Gutiérrez, Libera contro mafie, Libera Informazione, Amnesty International Italia, Avviso Pubblico, Unicef, la Fondazione Giancarlo Siani, la rete Nobavaglio, l’ex presidente del Senato Pietro Grasso, l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, il sottosegretario all’Editoria, Andrea Martella.

In moltissimi ieri si sono domandati: era proprio necessario buttarlo fuori dal giornale che aveva diretto per soli 12 mesi? In questo modo e in questo momento? La risposta, per quel parole che si dicono, è no. Meritava più rispetto e molta più solidarietà. Soprattutto dal nuovo editore.

Maurizio Molinari va a dirigere Repubblica e lascia la sua poltrona alla Stampa con un editoriale di ghiaccio pubblicato sull’edizione di oggi (che il giornale avrebbe anche dovuto lasciare libero dal firewall). Vanta il varo del progetto Digital First, che in realtà è un slogan, perché di fatto è un incompiuto. Oppure è compiuto e noi lettori nemmeno ce ne siamo accorti. E’ stato un direttore che parte della redazione non ha mai amato. Nelle estenuanti battaglie sindacali con l’azienda per difendere il lavoro e gli stipendi Molinari si è sempre dichiarato arbitro tra la redazione e l’editore. I redattori chiedevano invece che lui fosse il primo dei giornalisti. L’azienda è la controparte, non l’altra squadra che gioca la partita e tu direttore ti metti il fischietto in bocca. Tuttavia, chi fa questo mestiere sa benissimo che i direttori sono dirigenti aziendali e molto raramente si mettono di traverso al padrone che li foraggia lautamente. Il direttore è l’unico giornalista dipendente che può essere (articolo 6 del contratto di lavoro) licenziato dalla sera alla mattina. Perciò, se tutto va bene è un arbitro.

I maligni dicono che va a La Repubblica per tagliare un centinaio di posti di lavoro. Quelli che gli vogliono bene sostengono che con la sua capacità organizzativa riporterà il giornale, più online che carta, agli antichi fasti per abbonamenti e pubblicità.  Molinari è di fatto il terzo direttore della Stampa che va a dirigere Repubblica. Prima di lui Ezio Mauro (20 anni di direzione) e Mario Calabresi (4 anni). L’unico estraneo, non modellato su Torino, è stato Verdelli. Persino Eugenio Scalfari affonda la sua origine di giornalista in qualche radice torinese, avendo sposato nel 1950 Simonetta, figlia del leggendario direttore della Stampa Giulio De Benedetti. Verdelli registra anche il primato della direzione più breve nella storia dei principali quotidiani italiani.

Di Massimo Giannini non so nulla, molto romano di formazione (come Molinari), La Stampa non sa più esprimere un direttore torinese, perciò aspetto di leggere il suo primo editoriale e di sapere che cosa ha detto alla sua nuova redazione. Vedremo.

Infine, sempre per parole che si dicono, John Elkann, in qualità di nuovo editore del maxi gruppo, aveva tutto il diritto di cambiare i vertici dei giornali che ha appena acquistato. Capita in qualsiasi azienda, i dirigenti saltano e il proprietario si sceglie uomini di sua fiducia. E’ legittimo, quello che non doveva fare era cacciare in poche ore un direttore minacciato di morte dai terroristi. Sono quasi certo che suo nonno l’Avvocato non l’avrebbe fatto.