giorgio levi

Villaggio

(foto Wikipedia)

Vado un po’ fuori tema. Ma sento di volerlo fare. Ho aspettato un paio di giorni che l’effetto scomparsa di Villaggio si depositasse. In rete, nel guazzabuglio dei social e su tutto il resto. E soprattutto voglio scriverla questa breve nota e che resti qui, sulla nuvola.

Dunque, sono grato a Paolo Villaggio per due cose, importanti nella mia vita. E le voglio dire ora che non c’è più. La prima accade nel 1971. Mamma ha 46 anni e da mesi attraversa una profondissima crisi. Viaggia al buio con i fari spenti, lei che ha sempre battagliato con le luci ben accese. Qualche anno dopo capirò che quella cosa si chiama depressione. Sta a letto tutto il giorno, piange, non vuole parlare nemmeno con noi. La segue un bravo neurologo, ma l’effetto dei farmaci a me fa impressione. Un giorno esco, vado in libreria e compro Fantozzi, il primo libro di Villaggio. Lo acquisto per me, per distrarmi, per non entrare continuamente nella stanza di mamma a vedere se piange.

Ne leggo un paio di capitoli, poi vado da lei le dico: “Ho comprato il libro di Villaggio, fa ridere, vuoi che te lo legga?”. Lei non dice sì, e non dice no. Se ne sta lì con gli occhi chiusi. Leggo un capitolo, chiudo il libro e torno nella mia stanza. Il giorno dopo un altro capitolo. Le domando: non ti piace? Il terzo giorno non busso più. Lei è catatonica, io disperato. Passano un altro paio di giorni, mi chiama e mi dice: “Perché Fantozzi non me lo leggi più?”. Così ricomincio, dal capitolo uno.

Da lì in poi è un lento ma evidentissimo risveglio. Io imito la voce di Villaggio quando fa Fantozzi, mamma prima sorride, a volte vuole che le rilegga una decina di righe, alla fine ride davvero. Ho fatto durare il romanzo 15 giorni, ma avrei voluto che non finisse mai. Era solo l’inizio, il risveglio. Dopo tutto è stato più facile.

Qualche anno più tardi, nel 1984, vengo assunto in Mondadori nella redazione di Topolino. Pagato, con stipendio a fine mese in busta paga. Sono un praticante, cioè non ancora un giornalista professionista. Il direttore (quel galantuomo di Gaudenzio Capelli) mi dice: “E’ un compito a cui tengo molto. Devi andare alla registrazione di un programma di Canale 5, l’ospite sarà Paolo Villaggio, intervistalo e fatti scrivere una dedica per i nostri piccoli lettori”. Arrivo a Cologno e un’addetta dell’ufficio stampa dice a me, e a numerosi altri colleghi, che Villaggio non vuole parlare con noi.  Assolutamente. Possiamo presenziare alla registrazione e fine.

Quando entriamo nello studio Villaggio sta facendo le prove. Stiamo lì una mezz’oretta, poi alcuni di noi lasciano lo studio. Io resto, e soltanto molti anni più tardi capirò quanto per un giornalista sia importante restare quando gli altri se ne vanno. Villaggio si siede su un gradino e aspetta che il regista scenda in studio. Io mi avvicino e gli dico: “Signor Villaggio sono un giornalista”. Lui non mi lascia finire la frase e cerca con lo sguardo l’addetta stampa. Ma io aggiungo: “Sono un inviato di Topolino”.  Villaggio mi squadra per bene e scoppia a ridere, poi serio: “Lavori al Paper Sera?”. Mi siedo e cominciamo a chiacchierare. Dei cartoon , di Topolino, della Disney. Firma l’autografo con dedica per i lettori. Ho tutto quello che mi serve. Il mio primo vero servizio. Villaggio lo scontroso, l’antipatico, il burbero si è sciolto per l’inviato del Paper Sera.

Alla fine gli dico che lui, senza saperlo, molti anni prima, ha guarito mia mamma. E che perciò lo ringraziavo. Mi guarda strano, capisco che non ci crede. Anch’io lo guardo negli occhi. E poi penso, questa cosa dovevo proprio dirgliela.