(nella versione originale “E’ La Stampa!” capitolo 30 di Volevo essere Jim Gannon)
Quando vengo assunto con contratto a termine per la terza volta il capo del personale de La Stampa mi telefona a casa: “Questa volta ti offriamo un posto prestigioso. Vai alla redazione esteri”. Il mattino dopo sono lì. Firmo le solite carte, il funzionario mi stringe la mano e dice: “Gli esteri sono un piano sotto, ma è meglio che ti accompagni io”. Apprezzo, è un po’ come a scuola. Il bidello ti porta in classe.
Il capo della redazione Esteri è Mario Varca, uomo dal carattere insopportabile. E’ uno duro come il marmo, facile agli attacchi di nervi, secco e tirato come la canna di un fucile. Ha la fama di essere il prototipo della persona antipatica, e in effetti lo è. Nel modo di camminare, di guardarti, di giudicare. Ha il volto scavato, gli occhi che ti fissano e non ti vedono. A La Stampa lo sanno tutti com’è. Un collega della cronaca anni prima aveva chiesto di essere trasferito agli esteri, lo scontro con Varca era stato così forte che in poche ore aveva fatto ritorno alla sua scrivania in cronaca. Il lato positivo è che Varca è così con tutti. Dai giornalisti della sua redazione al direttore, non fa distinguo, è un uomo contro. E’ così da sempre e lo sarà fino alla fine, quando gli eventi precipiteranno e lui sarà messo brutalmente fuori da tutti i giochi. Mai un solo giorno, una sola ora si ammorbidirà.
Lo noti da lontano, cammina dritto come avesse un bastone infilato nella schiena, è un torinese snob, colto e raffinato. E’ fuori da qualsiasi moda, indossa abiti di taglio antico, tiene la giacca di Jack Emerson o di Ruffatti chiusa con i tre bottoni, le camicie bianche hanno il colletto inamidato, le cravatte senza colori, chiuse dal nodo piccolo ed elegante. Con le scarpe passate al lucido prima di uscire di casa, Varca attraversa l’open space di via Marenco come Alec Guinness nel Ponte sul fiume Kwai quando cammina rigido nella spianata del campo di prigionia inglese. Varca odia gli inglesi. Un giorno cade in Afghanistan un elicottero britannico, muoiono in dodici. Varca legge l’Ansa e si domanda : “Solo?”.
Quel giorno il capo del personale fa le presentazioni: ” Ti presento Mario Varca, capo della redazione Esteri. Questo è Levi, il nuovo redattore”. Ci siamo. Varca in piedi alto, dritto, con lo stecco nel collo, mi guarda e m’inchioda: “Benvenuto, sappi che qui siamo tutti antisemiti”. Lo dice increspando la bocca, vorrebbe essere un sorriso, ma tiene le labbra serrate. Il capo del personale ha un lieve sbandamento: “Naturalmente Varca scherza”. E via a grandi falcate verso l’ascensore.
Se Varca è antisemita e me lo dice, affari suoi, io so che lì dentro non sarà un parco divertimenti. Mi convinco che sono alla Stampa, e trovo posto in una scrivania alle spalle del capo. Gli altri colleghi sono gente per bene, quieti, nello stile vecchia redazione di via Marenco.Varca è così in ogni momento della giornata. Quando è l’ora della riunione del pomeriggio dice: “Vado da quello, ci sarà da ridere”. “Quello” è Marcello Sorgi, il direttore.
C’è tutto un liguaggio lì agli esteri tra capi. Nel mirino c’è per definizione Fiamma Nirenstein, ebrea e corrispondente da Gerusalemme. Certo è una donna irritante. Una sera sono di lunga (cioè resto fino all’ 1,30 di notte, ultima ora per rifare il giornale). Accade qualcosa in Israele, sono rimasto solo in redazione. Il capo del turno di notte mi dice: “Facciamo una bella ribattuta”. Naturalmente “bella” è un eufemismo. Telefono alla Nirenstein: “Fiamma hai cento linee”. Lei mi risponde: “Ho gente a cena, è una magnifica sera, siamo in terrazza, metti insieme un po’ di agenzie, poi io firmo”. Io non ho cenato affatto, la mensa chiude a mezzanotte, però meglio così. La Nirenstein è una giornalista di pessima scrittura, non ha il senso della punteggiatura, i pezzi sono spesso da rifare. Tanto vale che lo scriva io. Chiudo alle due, Fiamma non c’è più, la notizia si è ridimensionata.
Varca sa tutto questo, ma non se ne preoccupa, perché ha un pregio straordinario. E’ il miglior capo di redazione che abbia mai avuto La Stampa. L’uomo che sputa vetriolo è perfetto seduto alla guida della sua macchina redazionale. Pochi lo ammettono, tutti lo sanno. Ha rare incertezze, distingue una notizia che farà clamore, da una che non vale una riga. Legge l’Ansa, telefona ai corrispondenti, muove le sue carte, scarta la fuffa e tiene l’oro.
Una sera verso le nove Roberto Bellato caporedattore esce dal suo ufficio e con la dovuta circospezione si avvicina alla scrivania di Varca: “Mario, tieni d’occhio questa cosa perché mi sa che è importante”. Varca con Bellato ha un dialogo ridotto ai minimi termini, distanze siderali li dividono, appena si allontana si gira verso la redazione e dice: “Ma con chi crede di avere a che fare?”. La notizia Varca l’aveva messa in evidenza sul suo video alle tre del pomeriggio e in cinque ore non aveva perso un solo aggiornamento. Aggiunge: “E’ una notizia delle balle, io chiudo le pagine adesso”. Aveva ragione lui, tutto si sgonfia in fretta. Bellato sparisce nel vortice della tipografia, Varca se ne va a casa con il suo giornale confezionato come un gioiello.
Varca è implacabile. Io sono stato messo lì per fare titoli. Per quanto m’impegni non ne faccio uno giusto. Varca prende la mia pagina sul suo video e senza nemmeno leggere come ho titolato cancella tutto. E rifà da capo. Cambia, modifica, riscrive, dritto davanti al suo computer, senza pause, senza caffè, senza bar, senza passeggiate nei corridoi. Si alza solo alla sera tardi quando il giornale chiude, qualche volta sale in mensa da Enzo e si fa portare sempre lo stesso piatto. Per il barista, che è totalmente fuori di testa, ha condotto una campagna in difesa del suo posto di lavoro. Enzo è ancora lì ad avvelenare metà dei giornalisti di Torino.
I giorni neri per Varca arrivano quando Sorgi è agli ultimi mesi di direzione, quando alla porta bussa già Anselmi con il suo manipolo di romani. Sorgi lo chiama in direzione e da un minuto all’altro gli toglie il comando degli esteri: “Mario, tu domani lavorerai al secondo piano. Ho in mente un progetto per te”. Ma non è vero. Al secondo piano ci sono gli uffici amministrativi, nessuna redazione. Da due giorni un paio di operai stanno montando delle pareti mobili in una piega del corridoio. Quello sarà l’ufficio di Varca. Una scrivania, un televisore, il computer con le agenzie, due poltroncine, una porta che si può chiudere a chiave. In tutto quattro pareti lontane dalla macchina del giornale, isolate in un corridoio che non porta da nessun parte, fuori dal tumulto delle notizie. Per Varca è la fine della sua professione. Una sera esce dalla più blasonata redazione de La Stampa, il giorno dopo siede ad una scrivania muta. Varca scompare, svanisce, si dissolve.
Dopo un paio di settimane vado a cercarlo. Salgo al secondo piano, busso alla porta chiusa, mi vede nella trasparenza dei vetri: “Entra Giorgio”. E’ seduto dritto come un fuso davanti al computer, seleziona qualche notizia sull’Iraq, legge Le Monde. Gli chiedo come va. “Sono dei figli di puttana, ma io non mi tiro indietro”. Mi dice che entra tutti i giorni alle tre del pomeriggio ed esce la sera alle dieci. Fa esattamente lo stesso orario di prima. Resterà in quella cella per molti mesi, prima della pensione anticipata, pochi colleghi saliranno a trovarlo, Anselmi non lo vorrà vedere mai più. Io due o tre volte la settimana vado lì nel primo pomeriggio. Ci guardiamo, sorridiamo, commentiamo. E’ contento di vedermi. Nel tempo che verrà lo vedrò anche fuori da via Marenco, a cena a casa di amici con sua moglie, una donna colta e paziente. Lui sarà sempre così, come l’avevo visto il primo giorno. Duro fino all’ultimo, ma non con me.
Qualche tempo dopo scoprirò che aveva speso parole di elogio a mio favore, chiedendo anche la mia assunzione definitiva. In un posto dove anche in garage rischi di essere travolto da colleghi pronti a calpestarti, Varca resta il segno di un giornalismo all’antica. Un giorno Francesco Cossiga da presidente della Repubblica disse della redazione esteri diretta da Mario: “E’ la più prestigiosa d’Italia”. Aveva ragione, schiene diritte come quelle di Varca non ci sono e non ci saranno mai più.