
C’è qualcosa che mi disturba in questa corsa insensata a postare sui social tutto quello che passa davanti agli occhi. A Torino, in pieno centro, è precipitato un autobus nel Po. E’ morto l’autista.
La piazza antistante il luogo della tragedia, e il passeggio lungo il fiume, erano naturalmente affollati di turisti, di gente che si godeva il primo sole, di passanti. E’ una delle zone più fotografate della città. E tutta questa massa di gente se ne stava lì con il telefono in mano a scattare foto del Po o della collina e a riprendere immagini in video.
L’autobus si inabissa nel Po e l’attimo della sciagura finisce negli obiettivi di mille telefoni già alzati in cielo per i fatti loro. Che roba, ragazzi! Devono aver pensato i mille. Una manciata di secondi dopo il volo in Po del bus è già sui social.
Poi arrivano i cronisti, quelli per una via o per l’altra, si accaparrano quei venti frame e l’autobus che scompare in Po è sulle homepage dei quotidiani.
Avrei voluto domandare ai mille di telefono selvaggio: ma vi siete chiesti, prima di postare come barbari affamati il vostro video, chi c’era sul quel bus? Vi siete chiesti se quelle immagini potevano essere gli ultimi secondi di vita di qualcuno là dentro? Quando si vede il pullman che si ribalta verso il fiume lì al posto di guida c’è un uomo che vive gli ultimi secondi della sua vita. Potevano esserci i nostri figli, i nostri nipoti. Voi non potevate saperlo, ma avevate solo l’ansia di arrivare per primi sui social a contare i like. Vi siete chiesti se è corretto mostrare in pubblico le immagini di una persona che sta per morire?
In una intervista ad un gruppo di ragazzini, uno di questi dice: il video che vedete di più online è il nostro, abbiamo ripreso tutto!
Abraham Zapruder fu l’uomo che filmò l’assassinio di Kennedy a Dallas. L’unico a riprendere l’intera sequenza. L’uomo del “poggio erboso” ebbe una vita difficile, dopo. Il suo film finì nelle mani della Cia, dell’Fbi, dei vari servizi segreti, del governo e lui si arrovellò fino alla fine dei suoi giorni per quello che aveva impresso nella sua pellicola.
E’ questo dei video pubblicati senza uno scrupolo, un ripensamento, la paura di fare del male a qualcuno, il modello d’informazione che vogliamo?
Fatico a pensare che si possa tornare indietro. La situazione non è neppure quella di chi pensa “nel dubbio, io filmo”; perché il dubbio non c’è proprio, io filmo (e condivido) e basta.
L’unico deterrente potrebbe essere quello di perseguire la pubblicazione di video che documentano persone che muoiono o che stanno correndo il rischio di morire, ma è chiaramente impossibile senza trasformarsi in una Cina. Limitare il permesso di pubblicazione ai soli soggetti giornalistici? Poco efficace perché esiste tanto giornalismo spazzatura. E poi impedire la pubblicazione di contenuti violenti significherebbe bloccare persone che magari rendono pubblici gli abusi di chi indossa la divisa. Insomma, temo che non se ne uscirà.
sì, è esattamente come dice lei, la soluzione del problema è di educazione morale, dovrebbe partire da lontano, dalla famiglia, dai genitori, dalla scuola.