
Spesso non ho condiviso in passato le interviste o i reportage da Gerusalemme di Fiamma Nirenstein, un tempo corrispondente per La Stampa, oggi opininista de Il Giornale, con un trascorso da parlamentare per Il popolo della libertà.
Ho lavorato alla redazione esteri de La Stampa quando Nirenstein era corrispondente da Israele. I suoi pezzi mi sembravano troppo radicali nei giudizi ed eccessivamente schierati sulla destra israeliana più intransigente. Fiamma però aveva un pregio, tra tutti i corrispondenti. Era la prima sulle notizie, sapeva tutto di tutti, conosceva ogni dettaglio su quanto il governo israeliano decideva, poteva alzare il telefono e parlare con il primo ministro. Aveva amicizie importanti a Gerusalemme e questo è quello che più conta (contava) per un giornale, che non dovrebbe mai arrivare secondo su nessuna notizia.
Ho letto l’articolo che riporto qui sotto, scritto da Nirenstein per Il Giornale. L’argomento è Francesca Albanese. Questa volta condivido il contenuto e l’opinione che Nirenstein ha di questa donna.
Francesca Albanese non ricopre il ruolo di “relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati” in quanto esperta o ricercatrice. Lo dimostrano i suoi rapporti sul Medioriente costruiti solo sulla base delle testimonianze delle sue Ong preferite. Al contrario, ricopre il ruolo in quanto progressista negazionista.
La Albanese non conosce la storia e neppure la cronaca; le sue fonti sono il ministero della Sanità di Hamas, l’agenzia stampa palestinese Wafa e le Ong. Sugli ebrei, la sua opinione è molto simile a quella dei suoi predecessori, storici antisemiti: si ferma a soldi, potere, lobby e razzismo. E come lei, banali e molto ovvi, quasi tutti i talk show e le testate italiane e internazionali. Al contempo, quando la “sua” parte compie i gesti più mostruosi che mente umana possa immaginare, la Albanese è cauta e dubbiosa. Logico, altrimenti come potrebbe restare una persona perbene e una funzionaria delle Nazioni Unite se approvasse lo stupro e la mutilazione di massa?
La “sua” parte fin dal 1948 rifiuta una soluzione negoziata e chiede che Israele sparisca al grido di “from the river to the sea”, dal fiume al mare, ma lei non lo sa. È ovvio che la sua idea di legalità internazionale sia farlocca, ma la Albanese non cessa di riaffermarla cercando consenso. Il problema è che lo trova. È un consenso che si alimenta dei miliardi del petrolio, e senza alcun contraddittorio sentenzia: “Io ho ragione, tu hai torto; tu sei di destra, io sono contro il colonialismo”. Che a dire il vero non c’è, ma a chi importa la realtà?
Albanese si è ritrovata sulla cresta dell’onda woke, trasformata in incitamento al terrorismo e alla violenza. Abbastanza per farla candidare al Nobel per la Pace, secondo i suoi supporter progressisti. Non è strano: chi la sostiene si sente buono, anti-imperialista. Al tempo in cui il comunismo era l’ideologia in nome della quale si compivano i peggiori massacri di massa, il Nobel – seppur per la Letteratura – lo ricevette Dario Fo.
La farsa continua oggi: Albanese è accovacciata comoda nel nido della sinistra e nelle istituzioni internazionali, a partire ovviamente dall’Onu per cui lavora. È la diva indiscussa della conferenza di Bogotà, che raccoglie 30 Paesi (tra cui Cina, Qatar, Spagna, Sudafrica, Algeria e Indonesia) impegnati a chiedere l’isolamento di Israele. E la sinistra italiana, povera di leader, ha trovato in lei la sua ennesima bandiera: il sindaco di Bari le ha offerto le chiavi della città, un consigliere di Firenze – la mia città! – le vuole dare la cittadinanza onoraria e i big del “campo largo” difendono il suo “diritto di parola”.
L’Onu ha scelto la Albanese con il suo curriculum di conferenze tenute con Hamas, frasi antisemite, accuse su soldi e falsi accademici. Ma dietro di lei si cela l’immenso fenomeno che la crea e la definisce, ovvero la mutazione cieca della brava persona. Che ama i poveri e gli oppressi, che vede Israele come un progetto “coloniale aziendalizzato”, una misera balla. Gli ebrei sono bianchi, dice: che importa se il popolo ebraico è l’unico indigeno millenario che mai ha lasciato Israele nonostante gli spintoni, se gli immigrati dai lager hanno strappato al deserto la terra, se ha sgomberato Gaza e gran parte del West Bank, se ha tentato dieci volte l’accordo: Albanese non lo sa, lei è una brava persona progressista e generosa, ama i poveri del terzo mondo più di se stessa, vuole benessere e democrazia, odia l’occupazione inventata. Loro sono la parte giusta della storia, possono chiudere occhi e mente. E continuare a non raccontare di quel 7 ottobre in cui i palestinesi bruciarono vivi i bambini e stuprarono le donne.
Già, perché nei rapporti dell’Albanese non c’è. Anche Greta Thunberg non ha voluto guardare quelle immagini. Si abbatte la statua di Cristoforo Colombo a San Francisco, si sradicano e si sporcano quelle di Churchill e Lincoln. Insieme alla storia, si cancella anche l’enorme forza omicida che Israele soffre da 75 anni, i missili, le decine di migliaia di trucidati nel terrorismo. Oggi Israele è costretto a combattere contro chi vuole distruggerlo. Stavolta dopo il 7 ottobre, sa che i nemici non vogliono affatto la pace, e non è disposto alla resa.
Il che risulta inaccettabile alle “brave persone” progressiste di cui Francesca Albanese è portavoce. Quelle che sognano una pace virtuosa e felice, da celebrare sulla tomba del popolo ebraico.
Peccato, signora, Israele non ci sta.
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CHI E’ IL MARITO DI FRANCESCA ALBANESE
L’organizzazione United Nation Watch, con sede a Ginevra e impegnata nel monitoraggio delle Nazioni Unite e nella lotta all’antisemitismo, ha chiesto al presidente della Banca Mondiale Ajay Banga di licenziare il senior country economist Massimiliano Calì, accusandolo di aver violato gravemente le regole di neutralità dell’istituzione. Secondo UN Watch, Calì (in servizio presso la Banca Mondiale in Tunisia) avrebbe pubblicato per anni post incendiari sui social media, accusati di incitare all’antisemitismo, promuovere il terrorismo jihadista e colpire con attacchi verbali Israele e gli Stati Uniti.
La vicenda si intreccia con un altro caso internazionale: Calì è il marito di Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu sulla Palestina, recentemente sanzionata e interdetta dall’ingresso negli Stati Uniti per le sue dichiarazioni estremiste e per la campagna di guerra economica contro Israele e le imprese americane.
In quanto coniuge, Calì è stato incluso nel divieto di ingresso negli Usa, un fatto che rischia di pesare sulla sua carriera, dato che la sede centrale della Banca Mondiale è a Washington. In oltre tredici anni di servizio, Calì avrebbe espresso pubblicamente giudizi gravissimi. Aavrebbe accusato l’America di voler uccidere bambini e definito Israele lo Stato più terrorista della terra, arrivando a paragonare gli israeliani ai nazisti e a giustificare attentati suicidi e accoltellamenti compiuti da palestinesi.
Bentornato “Times”, bentornato Giorgio!
L’articolo di Fiamma Nirenstein mi e’ apparso intriso di livore e spudoratamente fazioso in cui si vuole attaccare Francesca Albanese costruendo un impianto accusatorio citando con dovizia di particolari e in maniera tendenziosa eventi e dinamiche,da far sembrare tutto sembra nascere da un forte risentimento personale.Non riesco neanche ad immaginare la posizione assunta della giornalista da lei stigmatizzata come radicale al riguardo dei pezzi o reportges da Gerusalemme come “eccessivamente schierati sulla destra israeliana più intransigente”
Sì, erano davvero pezzi molto schierati a destra, ma non erano tempi di guerra. Questo invece mi sembra che desciva bene quello che accade a Gaza, ma soprattutto, per quello che m’importa di più in Israele.