giorgio levi

Maurizio Molinari, l’uomo che ha spazzato via le ragnatele ideologiche dal giornalismo

Riporto di seguito un interessante articolo, pubblicato qui su Linkiesta, firmato da Christian Rocca. Mi pare il racconto più veritiero e onesto sull’uomo che ha dato a Repubblica una veste di giornale occidentale, atlantico, antipopulista e antitotalitario, pro Draghi, Israele ed Europa.

Un giornale finalmente di respiro internazionale che è cambiato molto, ma che ha avuto difficoltà a farsi capire dai suoi lettori, che invece, nella maggior parte dei casi, non sono entusiasti dei cambiamenti.

La realtà, a mia modestissima opimione, è che Molinari avrebbe dovuto rappresentare un modello da seguire per innovare questa professione, limando i contrasti e superando le divergenze, cosa non facile, ma alla fine ci si può arrivare. Buona lettura.

Maurizio Molinari ha trasformato La Repubblica in un giornale occidentale, atlantico, antipopulista e antitotalitario, addirittura garantista, pro Draghi, pro Europa, pro Israele e anti islamismo politico radicale, lontano dalle autocrazie di ogni orientamento politico, autonomo dalla sinistra reazionaria e dalla solita ditta che si faceva dettare la linea o si illudeva di poterla dettare.

Immaginate come la Repubblica prima della cura Molinari avrebbe trattato il governo giallorosso di Conte, le manovre della sinistra populista per evitare che lo sostituisse Draghi, la genuflessione del Pd ai Cinquestelle, l’invasione criminale dell’Ucraina, la propaganda russa sulla pace del nostro tempo e il pogrom del 7 ottobre.

Immaginatelo! Pensate alle prime pagine che sarebbero uscite e alle editorialesse a ciglio alzato che sarebbero state scritte sulle responsabilità dell’Occidente, e poi ringraziamo tutti insieme il direttore che ha fatto tenere al principale quotidiano liberal del paese una direzione atlantica e occidentale.

Il compito di Molinari è stato immane, quasi come svuotare il mare con cucchiaino, ma Molinari quel mare ha provato davvero a svuotarlo, a tratti c’è riuscito, e Repubblica è diventato l’unico quotidiano di respiro internazionale del nostro derelitto Paese.

Non sempre, e non tutti i giorni, la missione in partibus infidelium di Molinari ha avuto successo. Soprattutto negli ultimi tempi della sua direzione ci sono stati alti e bassi (i punti più bassi le cartine geografiche in cirillico di Limes), e lo scontro tra un nuovo corso mai pienamente digerito e la nostalgia del passato ha cominciato a indebolire il progetto che, del resto, non è mai stato apprezzato a pieno dai lettori tradizionali e non è stato premiato da quelli potenzialmente nuovi.

Ci sono stati errori, come è normale che sia, ma ciò che conta nel dibattito pubblico italiano è sempre la post verità, perché nessuno legge niente, nessuno sa niente e prevalgono sempre il pregiudizio e il chiacchiericcio: così è passata sia la narrazione che Molinari ha cancellato la sinistra da Repubblica sia quella che ha confezionato un giornale estremamente di sinistra.

La Repubblica di Molinari non è piaciuta (a ragione) alla sinistra anticapitalista, che si è sentita tradita rispetto a quella che prima schiacciava l’occhiolino ai reduci del comunismo, ma non è piaciuta (a torto) nemmeno alla sinistra antitotalitaria e al mondo liberale, che non hanno mai fatto lo sforzo di capire che cosa stava cambiando nel giornale fondato da Eugenio Scalfari.

Questo, del resto, è il tempo del populismo che ha egemonizzato la sinistra, oltre che la destra. Questi sono stati gli anni della resa progressista a Giuseppe Conte, e di quella liberale a Giorgia Meloni, e non è un caso che i principali critici della Repubblica di Molinari siano stati coloro che in realtà avrebbero dovuto vedere nella nuova Repubblica derepubblicata un alleato e non un avversario (penso a Carlo Calenda e al Foglio che non hanno mai smesso di criticare il giornale con gli stessi argomenti del passato).

Molinari è stato certamente un corpo estraneo in una cultura giornalistica e politica solida e fiera, e quindi difficile da sradicare. Non è un caso che in redazione lo chiamavano Doron, come il leggendario protagonista della serie Netflix “Fauda” noto per i metodi spicci con cui affronta a viso aperto i nemici jihadisti.

Il suo sostituto è Mario Orfeo, uno dei giornalisti più preparati e più abili a navigare dentro e fuori le redazioni. Una scelta che è la migliore possibile per il futuro di Repubblica perché, in modo diverso rispetto a Molinari, e certamente in modo più accorto, difficilmente la sua direzione segnerà un vero ritorno al passato.

Orfeo è cresciuto senza dubbio nella Repubblica di Ezio Mauro, ed è uno che conosce Largo Fochetti come le sue tasche, ma non è Massimo Giannini. Orfeo è anche molto altro, non a caso ha diretto i giornali di Caltagirone che non sono mai stati esattamente fogli progressisti, i tre telegiornali Rai e poi tutta Viale Mazzini negli anni di Matteo Renzi.

Leggeremo e vedremo. Nell’attesa, molti auguri a Orfeo e al giornale della sinistra italiana, diventato grazie alla cura Molinari più vicino alle idee dei progressisti internazionali e meno a quelle dei rappresentanti di casa nostra. Abbiamo un grande bisogno di Repubblica. E, di nuovo, grazie a Molinari per averle tolto le ragnatele ideologiche”.

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Linkiesta

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