giorgio levi

I principi morali prima di tutto, altrimenti il giornalismo è finito per sempre

Comunque si concluda il caso Luca Ferrua (direttore del Gusto – Gruppo Gedi) indagato dalla Procura della Repubblica, con altri soggetti pubblici e privati, per un caso di corruzione legato ad una festa paesana enogastronomica di promozione turistica, qualche domanda la categoria dei giornalisti deve pur farsela.

Casi come questi sono delicati, la magistratura farà il suo corso. Luca Ferrua non è colpevole di nulla fino a quanto la giustizia non emetterà la sua sentenza. La narrazione del caso è ovviamente tutta al condizionale.

L’unica certezza che abbiamo oggi è che un giornalista è iscritto nel registro degli indagati. Su questo non si può fare finta di niente. Perché ne va di mezzo l’immagine del giornale che Ferrua dirige, l’immagine de La Stampa (il quotidiano Gedi dove viene confezionato Il Gusto, gli altri periodici sono in incarico a La Repubblica), l’immagine che se ne ricava dalla categoria dei giornalisti.

In fondo ai casi di corruzione in politica abbiamo fatto l’abitudine, dopo 50 anni di malaffare pubblico fanno notizia per una settimana poi entrano nel tritacarne del quotidiano e addio. Ma un giornalista perché? Che necessità ha d’infilarsi in vicoli che non sa dove lo portano? Soldi, guadagno? Smania di potere, al di fuori anche della professione? Mania di furberia, dimostrare che non sei un allocco che non coglie le opportunità di piccoli e grandi business che hai sottomano?

Allora. Diciamo che non può e non deve essere una questione di denaro. Un giornalista o una giornalista dipendente da un gruppo come Gedi (ma anche di altri di primo piano nel mondo dell’informazione di questo Paese) non ha nessuna (ripeto nessuna) necessità di cercarsi altre fonti di guadagno che non siano il suo stipendio. Con la busta paga che porta a casa ha una vita del tutto agevole, lui o lei e la sua famiglia. Sete di potere? Forse, ma santiddio dove si vuole arrivare. La furberia ci sta, fa parte dell’animo umano. C’è chi lo è, c’è chi non lo è. La paura di essere più piciu degli altri l’abbiamo tutti, ma ogni tanto ci si dovrebbe ricordare che esiste anche il pedale del freno.

Alla fine resta la questione morale, che per il solo fatto di appartenere alla presunta sfera della moralità stessa non si risolve da sola.

Dunque è necessario che il mondo del giornalismo cominci a piantare qualche paletto, che non significa limitare la libertà di stampa o di ognuno di noi di scrivere quello che pensa, ma vuol dire tracciare un confine su ciò che è morale in questa professione e ciò che non lo è.

Costituire una società privata, o farne parte (come nel caso Ferrua), accanto al lavoro che un giornalista svolge come dipendente da un gruppo editoriale, una società privata che fa affari con enti pubblici o simili non è morale. Scavalca il confine della onesta professione. Che è l’obiettivo a cui tutti i giornalisti sono chiamati. Che hanno responsabilità enormi, verso i colleghi, verso l’editore da cui dipenedono, verso i lettori. E infine verso se stessi. Su questo punto i giornalisti devono ora lavorare.

Che meraviglia andare a dormire la notte, senza chiederti se hai superato i confini della moralità.

Credits

Il caso Ferrua su RaiNews

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