giorgio levi

Una causa di lavoro contro il proprio editore si può vincere. Ma sarà come aprire la porta dell’inferno

In tutti questi anni molti colleghi, sfruttati e mai assunti dal proprio editore, mi hanno chiesto, sulla scorta della mia esperienza, se promuovere una causa di lavoro può dare qualche risultato. Una risposta certa non c’è, dipende da mille condizioni diverse. Nella quali lo sfruttamento del lavoro non è contemplato.

Ma se un buon avvocato trova la strada percorribile, allora non ci possono essere incertezze: la causa va intentata. Ma occhio, sarà come camminare sui carboni ardenti. I grandi, e spesso anche i medi editori hanno studi legali aggressivi, che vi faranno vedere la porta dell’inferno, non lavorerete più per nessun giornale, sull’importo della denuncia dei redditi ci sarà scritto zero, quell’anno non avrete portato a casa nemmeno un euro da questa professione, intorno vedrete solo terra bruciata. E forse deciderete di cambiare lavoro.

Ma se potete economicamente, se avete un supporto famigliare, se ve la sentite di non dormire la notte per almeno un anno, d’imbottirvi di Lexotan nei momenti più duri, allora nessuno dubbio, portate quell’editore davanti ad un giudice del lavoro.

Qui di seguito riporto il capitolo La causa, che è inserito nel mio libro Volevo essere Jim Gannon. La vicenda è datata, ma i termini di questa causa, che intentai a La Stampa, non sono molto diversi da quelli che molti colleghi riscontrano nel rapporto con il proprio editore tutti i giorni. Infine, un annotazione: a quel tempo fui l’unico a vincere una causa di lavoro contro La Stampa in 15 anni.

La causa

Il mio destino con La Stampa sembra segnato, entro ed esco dal giornale continuando a firmare numerosi quanto frustranti contratti a tempo. Dopo sette anni provo a chiedere l’assunzione definitiva. La risposta si ferma contro un muro, le porte si chiudono, iniziano i calci negli stinchi, per me non ci sono nemmeno più contratti di un mese. Me ne torno a casa, dopo sei mesi entro nello studio del migliore degli avvocati che apre un contenzioso con il giornale. L’avvocato mi dice : “Perderemo, quella è la Fiat, ma io non mi tirerò indietro”. La causa procede lentamente, abbiamo qualche incontro, le porte restano serrate. La distanza incolmabile. Sono mesi molto duri, non ho più collaborazioni, stare a casa e vedere mia moglie che si alza alle sei del mattino per andare a lavorare mi dà un senso d’impotenza, mi sento in colpa, forse sono segnali di depressione.

Passeggio nei giardini, non leggo più i giornali, non ho voglia di vedere colleghi. Ogni giorno, ogni ora sono concentrato sulla battaglia finale che verrà, non voglio perderla. Mi viene in mente l’immagine che avevo visto in televisione di un generale israeliano nella guerra dei Sei Giorni. Era già un uomo anziano, piccolo e robusto, una roccia in maniche di camicia al fronte, il passo deciso nella sabbia del deserto. I soldati lo guardavano come se fosse il loro padre, certi che li avrebbe portati tutti in salvo. Ecco, mi sentivo quel generale, lo stesso spirito, dovevo convincermi che la durezza d’animo mi avrebbe fatto vincere.

La tesi dell’azienda è che io accetto da anni contratti a termine perché non so che cosa fare nei periodi di pausa della mia redditizia attività da freelance con giornali di grandi editori. Voleva essere un goal, in realtà è un formidabile assist per me. La mia dichiarazione dei redditi riporta uno zero tondo sugli incassi di quegli anni. Io vivo perché mia moglie lavora. L’azienda nomina sei testimoni a favore. Sono sei colleghi con i quali ho lavorato, sei pronti a testimoniare contro di me. Ovvero, sei persone che sono pronte a dare battaglia ad un collega che non ha rubato, non ha fatto danni, non ha spacciato una notizia falsa per una vera. Uno che chiede il suo posto di lavoro. Questo resterà l’aspetto più doloroso di tutta la vicenda, non ho mai dimenticato quei sei, nè il loro gesto. In compenso altri sei disposti a raccontare la verità a mi favore, a difendermi e a battersi perché io abbia diritto ad ottenere quello che mi è dovuto. Con loro conservo un autentico debito di riconoscenza anche a distanza di anni.

Un pomeriggio mi chiama l’avvocato: “Offrono dei soldi, li vuole?”. La risposta è fin troppo semplice: “Fino alla fine per il mio posto di lavoro”. È autunno, squilla il cellulare, è l’avvocato: “È pronto Levi? Andiamo in tribunale, si comincia”. Sono udienze preliminari, non il processo, il giudice vuole capire. È una donna, non si perde una parola, annota, ascolta. Alla fine della riunione prende sottobraccio i dossier: “Ci vediamo tra un mese”. Al secondo incontro il muro del giornale non s’incrina, offrono ancora denaro. Il giudice si alza, ci guarda e dice: “Avete ancora quindici giorni di tempo per mettervi d’accordo, poi andiamo al processo”.

È una assolata mattina di novembre quando torniamo al Palazzo di Giustizia. Il mio avvocato si è fatto accompagnare da altri due legali, ci sono io e c’è mia moglie. Il giudice domanda: “Avete raggiunto una intesa?”. E aggiunge la frase chiave, rivolta con tono duro ai legali del giornale: “Se il signor Levi ha lavorato per voi sette anni e gli avete rinnovato così tanti contratti qualcosa di buono avrà fatto, no?”. L’accordo c’è, e dalla sera prima quando gli avvocati avevano limato le ultime asperità contrattuali. L’editore mi assume e io rinuncio all’anzianità accumulata negli anni precedenti. Il processo non ci sarà, niente aule di tribunale, i testimoni restano a casa. Dopo quasi quarant’anni di attesa posso finalmente entrare a La Stampa.

L’accoglienza, il giorno dopo la firma dell’accordo, avviene ai piani alti dell’amministrazione di via Marenco. Ci siamo tutti, si sprecano le strette di mano, le firme, i sorrisi di alcuni (mica di tutti), un pranzo di benvenuto. Sembriamo vecchi amici. A La Stampa, come in tutti i giornali, c’è il rito per i nuovi assunti del primo colloquio con il direttore. Lui dice qualcosa di benvenuto, augura buon lavoro, e due ore dopo morde già i polpacci al neo redattore. Per me il rito dovrebbe essere superato dai fatti, o almeno così spero. In realtà non è così. Il direttore Giulio Anselmi vuole vedermi ad ogni costo.

Così, il mio secondo colloquio con un direttore de La Stampa avviene 35 anni esatti dopo il primo. L’ufficio è il medesimo che era di Arrigo Levi. Anselmi è dietro la sua scrivania con gli occhi a fessura. Il solito modellino di Fiat 500 rossa d’epoca sul ripiano della libreria.
“Levi, entra”.
“Ciao direttore, come stai?”.
“Siediti”.
“Eccoci qui”.
“Vuoi che dica la verità?”.
“Sono qui per questo, direttore”.
“Io, fosse dipeso da me, fossi stato io a dover decidere, avessi potuto pensarci, non ti avrei mai assunto”.
“Certo, direttore”.
“È un giudice che lo impone all’azienda”.
“Lo so, ci siamo messi d’accordo, è andata così”.
“Ti mando alla redazione di Vercelli”.
“Ma che meraviglia, sono proprio contento”.
“Da oggi sei uno come tutti gli altri”.
“Questo sì”.
“Bene, se un giorno vuoi tirarti fuori da quel buco datti da fare”.
Il colloquio glaciale è finito. Mi alzo, mi aggiusto il nodo della cravatta porta fortuna che ho comprato anni prima allo spaccio del campus di Berkley, sorrido stretto ad Anselmi, che storta la bocca in una smorfia.

Dopo anni di contratti a Torino, a dieci minuti da casa, mi ha destinato alla più sperduta delle province, nel mezzo delle risaie, perché paghi il prezzo della mia assunzione. Alla cattiveria non c’è limite, ma Giulio Anselmi non sa che in quarant’anni di fatiche, rincorse e battaglie non mi sono mai arreso.

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